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Guerre nel mondo

dom 08 mag 2022 14:05 • By: Renato Pellegrini

Sono 169 i conflitti attivi: nel 2020 hanno causato oltre 81 mila morti

VALLI DEL NOCE. Non c’è dubbio che in questa epoca di grave crisi della politica le guerre si moltiplichino. Del resto è chiaro che nessuna guerra serve a ristabilire i diritti, a creare condizioni di maggiore giustizia tra i popoli, ma piuttosto a ridefinire i poteri. Lo sosteneva con lungimiranza Hannah Harendt. Con la guerra non si fa politica come qualcuno sembra sostenere, ma semmai si certifica il suo fallimento, la sua incapacità di agire per il bene dei cittadini.

A vecchi scontri irrisolti oggi si sommano nuove fiammate belliche. Non c’è solo l’Ucraina; secondo una ricerca condotta presso l’università svedese di Uppsala di guerre oggi se ne contano 169, gran parte delle quali nel Sud del mondo. E di queste non se ne parla, se non sporadicamente, perché si combattono in zone lontane dall’Europa. Nel 2020 hanno causato oltre 81.000 morti, un nuovo record, dopo cinque anni di relativo calo. Qualcuno di questi conflitti dura da troppi anni, e dunque è normale l’assuefazione. Ma non è affatto normale non tener conto delle violenze inaudite a cui sono sottoposti i civili, che, se vogliono salva la pelle e vogliono sfuggire alle torture si trasformano in profughi. Magari arrivano in Italia, ma non sono bianchi, e quindi per molti nemmeno profughi. È scandaloso questo modo di pensare! Nessuno che stia bene nel proprio Paese se ne va per stare peggio in un altro. C’è poi da notare che la guerra dell’Ucraina, col costo in crescita di tutte le materie prime, con l’aumento del prezzo del grano aumenterà la crisi e la fame nei paesi già poveri dell’Africa. È inutile negarlo: viviamo la Terza guerra mondiale a pezzi, anche se solo tre dei 169 conflitti registrati implicano un confronto militare classico fra Stati. Sono India – Pakistan per il controllo del Kashmir, Cina – India per la questione dell’Aksai Chin e Israele – Iran, oltre ora a Russia e Ucraina.

Elektrodemo

Nel corso del Novecento lo scenario bellico ha subito una «mutazione genetica», accelerata nell’ultimo quarto del secolo scorso. A dominare il panorama sono, ora più che mai, i conflitti interni o “intra-statali”. Ci possono essere i ribelli, che impugnano le armi contro il governo, come accade in Somalia o accadeva in Afganistan prima che i Talebani prendessero il potere lo scorso agosto. Di questo tipo di conflitti ce ne sono, secondo lo studio citato, 53. In 72 conflitti, le parti in lotta sono milizie di vario tipo che disputano il controllo di un territorio. Vi sono, infine, ventuno crisi create da organizzazioni – statali o non – che prendono di mira deliberatamente i civili. In tutte queste guerre c’è una tendenza crescente da parte di attori esterni di supportare militarmente uno dei contendenti. Come avviene per l’Ucraina. Sono le cosiddette «guerre per procura». «Sono stati gli scontri interni a produrre le conseguenze umanitarie più gravi nei decenni post-Guerra fredda. È sufficiente ricordare il dramma della Siria, dell’Afghanistan, dell’Iraq e dello Yemen. Le due eccezioni sono le guerre statuali tra Etiopia ed Eritrea (1999-2000) e quella in corso tra Mosca e Kiev», scrive Avvenire.

La durata è un elemento cruciale: quanto più lo scontro si protrae nel tempo, tanto più le conseguenze umanitarie rischiano di essere catastrofiche, indipendentemente dalla sua intensità. Lo si può vedere chiaramente nel Sud Sudan, Nigeria, Congo, Sudan, Somalia. Le guerre che durano da tanti anni sono quasi dimenticate. Eppure i due fattori, morti e tempo, si sono intrecciati in modo tragico e perverso nella crisi afghana, conosciuta come la crisi più lunga e più letale. Va avanti, infatti, ininterrottamente, alternando picchi di brutalità e timide frenate, dal 1978. Infine possiamo includere a pieno titolo nella categoria dei conflitti, la violenza che dilania buona parte dell’America Latina. Si pensava che l’accordo di pace stipulato in Colombia nel 2016 risolvesse in qualche modo la situazione. Non è stato così. La narco-guerra messicana, la feroce anarchia di Haiti o gli scontri delle bande in Centro America hanno costi umanitari e dinamiche a tutti gli effetti bellici.

È la dimostrazione di quanto affermava Hannah Arendt: il cuore della guerra – di ogni guerra, comunque la si definisca – è la ridefinizione del potere. Tacere non fa bene a nessuno, non risolve nessuna contraddizione, aumenta anzi il numero delle persone che cercheranno di fuggire in altri stati per salvarsi. In tutta questa violenza a me pare di poter dire che molti gridano pace e vogliono in realtà la guerra. A partire dai commercianti di armi, per i quali, come recita il titolo di un film di Alberto Sordi «Finché c’è guerra c’è speranza». Gli stati dovrebbero impegnarsi a convertire le fabbriche di armi in fabbriche di pace per il bene di tutti. Non mi convince nemmeno che vari stati si impegnino ad armare l’Ucraina perché possa vincere la guerra. Si potrebbe invece, come sostiene qualche studioso controcorrente, non comprare più gas e petrolio dalla Russia, evitando così di finanziare il costo della guerra sostenuto da questo stato invasore. Questo però porterebbe tutti a pagare un costo, non sarebbe affatto indolore per quegli stati che invocano la pace, Italia compresa. E allora si preferiscono altre strade. Prima fra tutte l’ipocrisia.

 



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