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Celebrazioni e pratica cristiana

dom 29 nov 2020 10:11 • By: Renato Pellegrini

In tempo di pandemia, limitazioni alla messa di Natale di mezzanotte per salvare i credenti e non il credo

La chiesa di San Bernardo di Rabbi di notte (ph. Consorzio turistico Rabbi vacanze), a destra don Renato Pellegrini

Se stessimo a sentire i media e i social network, potremmo pensare che il cristianesimo si limiti alle celebrazioni. Si discute in questi tempi di pandemia quasi soltanto di quel che è permesso o vietato celebrare pubblicamente, un fatto sul quale sono le autorità civili ad avere l’ultima parola. Prima c’è stata la diminuzione del numero di partecipanti autorizzati. Sono seguite poi le proibizioni delle messe, dei battesimi e dei matrimoni. Le cerimonie funebri sono state ridotte a un numero di partecipanti, corrispondenti agli stretti familiari. Poi è venuto il tempo della grande solitudine, sacerdoti soli davanti alla loro telecamera, confessione a distanza al modo del drive-in, e il tutto è culminato con una celebrazione di cui dobbiamo misurare l’‘enormità’: papa Francesco solo in mezzo a piazza San Pietro, il 27 marzo. È stata una delle poche celebrazioni che hanno trasmesso un profondo senso religioso e di fede. Mai come nel corso di questi mesi di confinamento la liturgia è apparsa come un affare dei preti.

I fedeli laici sono scomparsi dalle chiese. Loro, uomini e donne, non erano più sollecitati a consegnare commenti biblici, meditazioni o preghiere. Di fatto, era spesso la continuazione di una situazione dominante prima della pandemia. Nel confinamento, la teologia liturgica apparente era simile a quella che aveva guidato la Chiesa cattolica nel rito romano medievale fino al concilio Vaticano II: «I sacramenti sono amministrati dal servizio dei vescovi o dei preti» (Isidoro di Siviglia, inizio del VII secolo). Il principio che aveva guidato i vescovi del concilio Vaticano II e la riforma liturgica è ben diverso: la partecipazione attiva. Occorre ricordare che il termine ‘liturgia’ viene dal greco leiturgia che significa una azione pubblica, in presenza e a beneficio del popolo.

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La partecipazione è capitale e la sua portata coinvolge tutti gli ambiti della vita ecclesiale. Il concilio Vaticano II precisa, a seconda degli ambiti liturgici, che la partecipazione dei fedeli deve essere «consapevole, attiva e fruttuosa», «sia interna che esterna, secondo la loro età, condizione, genere di vita e cultura religiosa», «con una celebrazione piena, attiva e comunitaria», «consapevolmente, piamente e attivamente» (Sacrosanctum Concilium, n. 11, 14, 19, 21, 48 e 79).

Il tempo del confinamento è stata un’occasione per molti cristiani di scoprire o riscoprire liturgie domestiche. Si parla della famiglia come «piccola Chiesa» o «Chiesa domestica», espressioni riscoperte nella seconda metà del XX secolo, ma già presenti nei Padri greci del IV secolo. Possiamo distinguere due tipi di liturgie domestiche nel confinamento. Una quota rilevante dei cattolici abitualmente presenti alla messa la domenica sembra aver partecipato alle ‘celebrazioni’ grazie alla televisione, alla radio e a Internet. Qui però può sorgere qualche problema o forse, più semplicemente qualche interrogativo. Essere cristiani è solo una questione di partecipazione alla liturgia? Già ho risposto in un altro articolo a questo interrogativo (QUI L’ARTICOLO) Va menzionato infine l’impegno di migliaia di catechisti per seguire i bambini dei loro gruppi. Il che è spesso stato un ‘prendersi cura’ che si rivolgeva anche alle famiglie, così come possiamo leggere in varie testimonianze. Queste dimensioni di ospitalità, di fraternità e di solidarietà sono comunque poste in primo piano negli orientamenti attuali della Chiesa cattolica per impulso di papa Francesco, dopo la sua esortazione Evangelii gaudium (2013). Ne è sorto un ‘modello missionario’, chiamato in generale «Chiesa in uscita», che esorta le comunità parrocchiali e religiose a volgersi verso le «periferie» mediante una «conversione pastorale e missionaria». Nel contesto della pandemia, questi appelli richiedevano uno sforzo di immaginazione, se non volevano divenire un insieme di parole vuote. Gli uomini e le donne che avevano a cuore questo slancio hanno cercato il modo di continuare a svilupparlo. Continuano a essere importanti in primo luogo le relazioni di vicinato e di prossimità. Sembra, leggendo molte voci diffuse nei media e sui social network, che i cattolici e altri cristiani abbiano risposto «presente» agli appuntamenti della prossimità benefica. Del tutto logicamente, è qui che i cattolici assenti dalle liturgie domenicali abituali si sono mobilitati con (o senza) i praticanti per opere di solidarietà, per un aiuto a chi versava in situazioni di difficoltà. La liturgia dunque si salda con la vita, invia alla concretezza del quotidiano e celebra ciò che si è vissuto.

Da qualche giorno si parla e si sparla soprattutto su qualche giornale della messa di Mezzanotte. C’è che scrive articoli scandalizzati perché si farebbe nascere prima della mezzanotte Gesù Bambino. Ma io condivido perfettamente quanto ebbe a scrivere il vescovo di Manfredonia, dopo aver preso la sofferta decisione di chiudere il convento di S. Padre Pio: «Di fronte a questa situazione di pandemia non ci tocca salvare il credo ma i credenti, non ci tocca salvare la pratica ma i praticanti». Il credente è la persona che testimonia la fede e il praticante la rende concreta nel quotidiano, perché, qualora la dottrina o il culto o la morale si sovrapponessero e mortificassero la persona, non sarebbero espressione del Vangelo. Solo qualche residuale bigotto potrebbe contestare questa opzione, non solo per l’emergenza che la impone, ma per la motivazione che la sostiene.



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