Cultura & spettacolo

Il dialetto dei piccoli

I bambini, se non conoscono le parole, le «costruiscono»

Il dialetto dei piccoli

Negli ultimi anni mi è capitato spesso di fare caso con curiosità al dialetto parlato dai bambini. Dopo i miei studi di dialettologia e tutti i discorsi sul rischio di perdere le lingue minori e le parlate locali, ho ascoltato con più attenzione i discorsi spontanei e informali tenuti dalle nuove generazioni. Come raccontato qualche numero fa, ho anche condotto un"indagine generazionale per capire le differenze tra il dialetto parlato dalle madri e quello parlato dai giovani.

In questo articolo, invece, vorrei concentrarmi sui bambini, gli unici che parlano in maniera davvero spontanea e non controllata, privi di costrutti grammaticali a priori. All"interno della mia rete sociale e lavorativa incontro molti bambini, tutti diversi tra loro dal punto di vista della biografia linguistica: chi a casa parla solo o prevalentemente dialetto, chi sente il dialetto ma non lo parla, chi parla indifferentemente una lingua (italiano, tedesco, inglese, rumeno, albanese, ecc.) e un dialetto, chi parla due o più lingue, ecc. Tutti questi bambini, vivendo in Val di Non e Sole, entrano in contatto prima o poi con il dialetto locale: chi a casa, chi dalla nonna, chi a scuola, chi al parco giochi. E involontariamente assimilano le strutture grammaticali di questa lingua, esattamente come hanno assimilato quelle della loro lingua madre. Sanno distinguere inconsciamente il noneso o il solandro dalle altre lingue e sanno percepire le regole e i suoni che appartengono al dialetto. Dopo un po" alcuni iniziano anche a parlarlo. Quando ascolto i bambini chiacchierare o quando interagisco con loro, noto una costante molto interessante: anche se non conoscono tutte le parole di cui hanno bisogno, i piccoli interlocutori, senza pudore, le "costruiscono", seguendo inconsciamente le regole che hanno interiorizzato. Fatta eccezione per i piccoli di madrelingua nonesa o solandra, che sono cresciuti in un ambiente quasi totalmente dialettofono e più frequentemente modellano l"italiano sul dialetto, giungendo a parole come gomitare per "vomitare", gli altri tendono a partire da parole italiane per trasformarle in nonese o solandre. Ecco quindi che escono espressioni come: alber, alt, macina, has fam?. Questi esempi ci mostrano come i piccoli parlanti abbiano compreso alcune delle regole cardine della lingua nonesa e/o solandra, come:

- La caduta delle vocali finali diverse da A, come si vede nel confronto italiano-dialetto in "duro" à dur, "fiore" à fior; quindi perché non costruire anche "albero" à à lber e "alto" à alt, se non conosco i termini à rbol/à rbor e à ut/à ot?

- La palatalizzazione delle velari C e G, ossia l"addolcimento della pronuncia di questi suoni, caratteristico proprio del dialetto noneso in quanto appartenente al gruppo ladino; anche questo si vede benissimo nel confronto italiano-noneso, ad esempio in "gatto" à giat, "casa" à ciasa, e gli esempi sarebbero moltissimi.

Ecco quindi che anche "macchina" diventa macina, perché la palatalizzazione è talmente presente in noneso che a un parlante non esperto viene spontaneo metterla anche qui.

- Il mantenimento della -s finale latina, meno presente in noneso e solandro rispetto ad altre lingue del gruppo ladino, ma comunque riscontrabile nella seconda persona singolare dei verbi; prediamo come esempio il verbo "fare": fas, faves, farastus, farìes sono tutte seconde persone singolari che, nei vari tempi e nei vari modi del verbo, conservano la desinenza latina in -s di FÄ‚CIS, FÄ‚CIÄ’BAS e così via. Anche qui, la conservazione di -s suona come una caratteristica molto marcata, mente risulta molto meno orecchiabile la particella "ci" davanti al verbo avere, usata in modo informale ma scorretta in italiano.

Si sentono talvolta espressioni come "c(i) hai fame?" ma suonano errate; quindi anche in noneso e solandro non viene spontaneo costruire g(i) has fam? e il piccolo parlante inesperto può cadere nel semplice has fam?, che riporta appunto una marcatura dialettale: la -s finale.

Tutto questo per ricordare ancora una volta che i dialetti sono lingue vive, che si imparano, si costruiscono e si modificano ogni giorno; non sono solo lingue dei nonni, nascoste dietro parole antiche e ormai desuete, sono anche le lingue dei bambini e di tutti coloro che le scelgono, più o meno inconsciamente, per comunicare in famiglia, con gli amici, con il cane o con chiunque altro possa capirle e apprezzarle.

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