Lo so che può sembrare una battuta o forse una provocazione affermare che si potrebbe sospendere per qualche tempo la catechesi. Ci accorgiamo tutti, infatti, che semmai c’è bisogno di accrescere i momenti di incontro e di riflessione, data l’ignoranza dilagante sul Vangelo e la vita di fede in generale.
Rimane, è vero, una certa sensibilità “religiosa”, presente nelle comunità parrocchiali. Non significa però che si sappia chi è Gesù Cristo e quale è il suo messaggio. La religione è un passaggio importante e un aiuto a vivere la fede, ma può trasformarsi nella traduzione in vita pratica di riti, tradizioni, segni che troppo spesso non significano nulla, non aiutano diventare discepoli di Gesù. Nemmeno recitare qualche preghiera talvolta serve ad aderire e mettere in pratica ciò che si esprime con le labbra.
Prendiamo come esempio il “Padre nostro”. A quanti viene in mente, recitandolo, che se diciamo Padre ci proclamiamo tutti fratelli, e quindi dovremmo sbarazzarci di pregiudizi, cominciando a considerarci tutti di una medesima dignità. Dovremmo agire come Dio «che fa piovere sugli ingiusti e sui buoni» (Mt.5,43). La prima scelta da compiere è quindi realizzare comunità inclusive, ascoltando l’invito di papa Francesco: todos, todos, todos, prima o contemporaneamente al fare catechesi su chi è Dio.
Il Vangelo è, infatti, esperienza e racconto di una persona, non esposizione di un’idea. Ci potremmo chiedere: è più cristiano chi conosce a memoria il catechismo (che talvolta è un modo per non essere disturbati e non sporcarsi le mani) o chi cerca di vivere quello che Gesù ha trasmesso? «I “religiosi” sono convinti di conoscere Dio nella misura in cui lo pensano, che è come presumere di dissetarsi pensando alla formula dell’acqua». (Paolo Squizzato) Aver fede, seguire Gesù, essere cristiani significa impegnarsi per quello che Lui si è impegnato: la giustizia, la solidarietà, la pace, la tolleranza e la libertà degli uomini e delle donne in ogni parte del mondo.
Si potrebbe quindi lasciar perdere quelle che possiamo chiamare le “lezioni” di catechismo, impegnandosi per qualche opera concreta di bene da programmare e svolgere insieme nella comunità. Argomentava il vescovo Tonino Bello che oltre a vegliare, occorre anche svegliare. «Svegliare la gente dall’appiattimento spirituale… dalle abitudini sonnolente, dalla ripetitività rituale». Occorre, concludeva «aiutarla ad entrare nella storia, operando le scelte di ogni giorno secondo la logica delle “beatitudini” e non secondo i criteri del tornaconto».
Vivere la parrocchia non significa che una bella liturgia serve a far dimenticare i problemi della vita.
Nella preghiera iniziale della messa del Corpus Domini abbiamo pregato «che nella partecipazione all’unico pane spezzato e all’unico calice impariamo a condividere con i fratelli i beni della terra e quelli del cielo». Se per qualche tempo fosse questa la catechesi, non sarebbero impegnati soltanto i bambini e gli adolescenti insieme ai loro catechisti, che svolgono un’opera faticosa e meritoria, ma sarebbero chiamati anche tutti gli adulti a essere educatori nella costruzione di quello che il Vangelo chiama “regno di Dio”, cioè una società veramente umana. Agendo in questo modo si potranno incontrare e sarà possibile collaborare con donne e uomini che magari non conoscono e non si rifanno al Vangelo, ma amano fino in fondo le fragilità delle persone che incontrano e le aiutano a ritrovare la loro rispettabilità. Dio agisce al di fuori dei nostri schemi. Occorre recuperare la capacità di pensare, come diceva già il card. Martini. La fede non è mai obbedienza cieca, ma ricerca sincera e ascolto. E quindi mai dovrebbe abituarsi a formule ripetute e convenzioni religiose.
