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Dono e per-dono

dom 25 set 2022 09:09 • By: Renato Pellegrini

Una riflessione sull’innocenza e giustizia sociale

VALLI DEL NOCE. Ci sono alcuni libri, e sono veramente pochi, capaci di dire da soli tutto ciò che si può e si deve dire sulla giustizia, sul dolore morale e sulla vita. Sono evidentemente figli del loro tempo e del loro luogo, eppure conservano sempre una grande attualità. Se ci soffermiamo ad ascoltare i personaggi, a spiare il loro comportamento, a sentire il palpito del loro cuore, ci pare di rileggere la nostra vita o di rivedere la vita di qualche parente o amico.

I Miserabili di Victor Hugo, libro che mi è tornato tra le mani in alcuni giorni di vacanza, è sicuramente uno di questi libri. Il protagonista principale è Jean Valjean. Il romanzo si apre però con un vescovo, mons. Myriel, cui sono dedicate pagine bellissime e intense. E sono pagine che toccano e commuovono; pagine che possono anche convertire. Siamo nel 1815; il vescovo è ormai anziano. Da giovane, a causa della Rivoluzione che segnò la sua rovina economica, dovette emigrare in Italia con la giovane moglie, che morirà durante quell’esilio. Fu allora, quando vide fallire tutti i progetti della giovinezza, che sentì nascere in lui la vocazione sacerdotale. Poi diventerà vescovo e sarà immagine del Vangelo vissuto. Appena nominato dona la sua grande residenza episcopale all’ospedale di Digne. Il suo bilancio personale sarà tutto speso per i poveri. Si spostava sempre a dorso di un asino, mai in carrozza. Alla casa di questo vescovo, in una sera d’inverno, venne a bussare Jean Valjean, appena uscito dal carcere dove c’era rimasto per diciannove lunghi anni. Vi era finito perché aveva perso il lavoro (era potatore); disperato per la fame dei sette nipotini e della sorella vedova finì per rubare una pagnotta da un fornaio. In quella prigione «ne era entrato cupo, ne uscì disperato». Hugo ci spiega le ragioni di questa disperazione. Nel carcere «la luce naturale era accesa in lui», e «la sventura, che ha la sua luce», l’aveva accresciuta. In quella luce sventurata Jean Valjean «riconobbe di non essere un innocente ingiustamente punito». Quel pane l’aveva rubato davvero, non aveva saputo sopportare la fame, non aveva saputo aspettare. Così rimuginava mentre era in catene. Ma poi pensò anche: «Solo lui aveva avuto torto nella sua fatale storia?». E rispose di no. Capì che anche la società aveva la sua colpa, nel fargli perdere prima il lavoro, poi nel ridurre alla fame lui e i suoi nipotini, e infine nel tenerlo in carcere diciannove anni per aver rubato una pagnotta di pane. E così «giudicò la società e la condannò: la condannò al suo odio». Dichiarò a sé stesso «che non c’era equilibrio tra il danno da lui causato e il danno causato a lui».

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Quindi «Jean Valjean si sentiva indignato».

I miserabili è anche una grande riflessione sull’innocenza degli esseri umani. Anche se Jean Valjean riconosce le sue colpe, noi sentiamo che è innocente. Perché l’innocenza che conta non è l’assenza di colpe: se fosse questo nessuna persona sarebbe innocente. L’innocenza di questo romanzo, profondamente biblica ed evangelica, ha invece a che fare con la purezza del cuore, con la sincerità, con l’onestà verso sé stessi e verso gli altri. Jean Valjean «non era d’indole cattiva. Era ancora buono quando giunse in galera». E lo scrittore si chiede: «L’uomo creato buono da Dio può diventare cattivo per opera dell’uomo?»; può la cattiveria degli altri e propria «cancellare la parola che il dito di Dio scrive sulla fronte di ogni uomo: Speranza»? La risposta di Hugo è un chiaro: 'no'. Questa innocenza profonda la giustizia non la vede, neanche noi riusciamo a vederla negli altri e in noi stessi. È l’innocenza del figliol prodigo, quella di Giobbe: è l’innocenza che vede Dio, quella che deve vedere almeno Dio. L’immagine di Dio, la vocazione all’amore e alla relazione, resta viva e operante nelle nostre midolla nonostante il gesto di Caino. L’arte in questo caso è la strada invisibile che conduce le vittime dal Golgota al sepolcro vuoto. La Bibbia ci dice che Dio, guardandoci e toccandoci nella nostra miseria, ci fa innocenti con il suo sguardo, dal primo respiro all’ultimo, quando tra le braccia dell’angelo della morte sentiremo la stessa innocenza con la quale venimmo al mondo. 

Con questo odio e con questa indignazione Jean Valjean era giunto a Digne. In città viene riconosciuto come ex-galeotto e quindi cacciato dalle locande. Finché, rassegnato a dormire affamato all’agghiaccio, giunge alla porta di Myriel. Il vescovo lo accoglie, apparecchia la tavola con le posate d’argento e si rivolge a quel pover uomo con la parola «signore», perché, dice Hugo, con una frase stupenda, «l’ignominia ha sete di considerazione». Dopo la cena, arriva la notte. Nella mente di Jean Valjean tornano i fantasmi dell’odio, della rabbia e dell’indignazione: «Quelle sei posate d’argento l’ossessionavano». Si alza, si dirige verso l’armadio, quindi «ficcò l’argenteria nello zaino, attraversò il giardino, saltò il muro come una tigre, e fuggì». La mattina seguente, la domestica scopre il furto e avverte il vescovo. E questi: «Era nostra quella argenteria? Essa apparteneva ai poveri. Chi era quell’uomo? Evidentemente un povero». Poco dopo bussarono alla porta tre uomini, che ne reggevano un quarto, alla porta: «Tre uomini ne reggevano un quarto per il bavero. I tre erano gendarmi, l’altro era Jean Valjean» Qui succede ciò che nessuno probabilmente s’aspetta. Il vescovo esclama: «Ah eccovi, sono contento di vedervi. Come sarebbe? Ti avevo dato anche i candelieri d’argento: come mai non li avete presi insieme alle posate?». L’ospite può essere un angelo (Eb 13,2), ma chi arriva può essere anche Ismaele che uccise Godolia, che lo accolse, mentre cenavano insieme (Ger 41,1) Myriel fu senz’altro imprudente. Ma Hugo non vuol raccomandarci di non accogliere più futuri Valjean, vorrebbe invece che aumentasse in noi il desiderio imprudente di aprire una porta in più, almeno quella di casa nostra.

Abbiamo smesso di leggere la Bibbia e I miserabili, abbiamo chiuso porte e porti ai nostri viandanti, e siamo diventati noi i miserabili. Certo è impossibile oggi costruire un intero sistema sociale e penale soltanto sull’agape. Ma quando lo costruiamo senza l’agape le nostre società e le nostre carceri finiscono per somigliare troppo a quelle di Polifemo e dei beniaminiti di Gabaa (Gd 19-21). È però nella vita ordinaria del vescovo dove si trova la dimensione decisiva della grammatica dell’agape. Myriel ha reagito in quel modo al tradimento del dono – la gratuità del dono include fin dall’inizio la possibilità concreta del tradimento -, perché tutta la sua esistenza era alimentata dall’amore più profondo.. Ciò che può apparire come una risposta emotiva è invece il frutto di una vita di esercizio quotidiano di agape. Come quando vedo qualcuno che sta annegando nel mare in tempesta: se mi getto d’istinto nel turbinio delle onde è quasi certo che annego con lui; se a tuffarsi è invece un nuotatore professionista, il probabile salvataggio è il risultato dell’allenamento di una vita. L’agape non è improvvisazione: è habitus conquistato, è dura disciplina: «Quando pensate alla leggerezza della ballerina, guardatele i piedi» (Carla Fracci). Non tutti possono vivere tutti i giorni l’ospitalità in questo modo: qualcuno però lo deve fare: almeno uno, almeno io almeno una volta. Un solo gesto di questo amore può riscattare una vita, quindi può salvare il mondo.

Termino con un invito: pensiamo per un momento ai carcerati, innocenti come Jean Valjean, che nella luce della loro sventura hanno saputo custodire un’innocenza vera. E non è per caso che per noi sono tutti delinquenti allo stesso modo?



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