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Un anno nuovo di speranza. Anche per i carcerati?

dom 05 gen 2025 11:01 • By: Renato Pellegrini

Alla ricerca di una giustizia umana

È impressionante il numero di suicidi che ogni anno avvengono anche nelle carceri italiane. Negli ultimi anni sono stati in molti ad alzare la voce contro una situazione carceraria di grande precarietà.

Anche il Presidente della repubblica Sergio Mattarella nel recente messaggio di fine anno, ha giudicato la condizione dei detenuti, soprattutto a causa del sovraffollamento, giuridicamente e umanamente indegna di un Paese civile. Per la prima volta un papa ha voluto aprire una porta del giubileo proprio all’interno di un carcere: Rebibbia. Come in una cattedrale anche là, dove ci sono donne e uomini che hanno compiuto errori nella loro vita non può mancare la “speranza”, «parola che il dito di Dio scrisse sulla fronte di ogni uomo». (Victor Hugo). Non è certamente facile tradurla in pratica.

Scrive papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo 2025: «Nell’anno giubilare saremmo chiamati ad essere segni di speranza per tanti fratelli e sorelle, che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti, che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto» (Spes non confundit, 10). E suggerisce ai Governi che «nell’anno del giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza: forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in se stesse e nella società, percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi». Non sono parole buttate lì casualmente. Riecheggiano l’insegnamento di Gesù e trovano una sintonia profonda con l’articolo 24, comma 3 della Costituzione: «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono tendere alla rieducazione del condannato».

Graziadei marzo 2025

Ho conosciuto cappellani delle carceri capaci di far tornare la speranza anche in cuori molto induriti, divenuti anche capaci di ammettere gli errori commessi. Si tratta di un lungo cammino di pazienza, ascolto e conversione. Forse ricordiamo che il futuro cardinale Carlo Maria Martini all’inizio del suo ministero a Milano, nel 1980, volle trascorrere quattro giorni nel carcere di San Vittore per condividere la vita dei detenuti. Non fu un gesto inutile, perché portò a una delle pagine più significative della storia d’Italia. Il 13 giugno 1984 uno sconosciuto si presentò all’allora segretario del cardinale Martini, don Paolo Cortesi, e mentre questi era al telefono abbandonò su un tavolo tre borse contenenti le armi del “comitati comunisti rivoluzionari”. Era l’annuncio della fine definitiva della lotta armata nel Paese, la resa dei terroristi e un modo per sollecitare una mediazione della Chiesa «per una riconciliazione umana, sociale e politica». Gli atteggiamenti di rispetto della dignità delle persone portano spesso a risultati insperati.

Lo so che, invece, c’è che auspica che si gettino via le chiavi delle prigioni, lasciandovi marcire i reprobi che vi sono rinchiusi. È un’affermazione disumana e non è vera. Basta guardare a quanto accade negli USA, dove oltre tutto c’è anche la pena di morte. Là c’è la maggior popolazione penitenziaria del mondo, eppure vi si registrano anche degli indici di criminalità più alti in assoluto. Purtroppo «Non c’è menzogna troppo grossolana a cui la gente non crede, se essa viene incontro al suo segreto bisogno di crederci» (C. Wolf, Medea). Scrive Glauco Giostra su l’Avvenire del 3 gennaio 2025 che «il rispetto della dignità della persona carcerata e la stimolante speranza di poter realmente incidere sul proprio destino sono fattori di drastico decremento della recidiva del condannato quando torna libero. Ce lo testimoniano le esperienze di sistemi penitenziari a dimensione umana, quali ad esempio gli Apac brasiliani, la prigione di Bastoy in Norvegia, il nostro carcere di Bollate. Ce lo attestano le statistiche. Ce lo ricordano gli studiosi della psiche, per i quali concepire «il carcere come camicia di forza, come immobilità per non far del male, è pura follia, è antieducativo. Non appena viene tolto il gesso, c’è subito una voglia di correre e di correre contro la legge» (Vittorino Andreoli). Ce lo ricordano i grandi conoscitori dell’animo umano: «Senza un qualche scopo e senza l’aspirazione a raggiungerlo nessun uomo può vivere. Quando ha perduto lo scopo e la speranza, l’uomo, dall’angoscia, si trasforma non di rado in un mostro» (Dostoevskij). Possono cambiare le carceri e le condizioni dei detenuti quando tutti, l’intera società, comincerà a pensare che non è aumentando all’infinito le pene o rendendo più facile l’arresto che potremmo vivere tutti sicuri, contenti e felici. Occorre più probabilmente voltare la pagina del nostro sistema punitivo. Ancora da Avvenire trascrivo una citazione monito che Sciascia lasciò A futura memoria: «I cretini, e ancor più i fanatici, son tanti (...): contro l’etica vera, contro il diritto, persino contro la statistica, loro credono che la terribilità delle pene (compresa quella di morte), la repressione violenta e indiscriminata, l’abolizione dei diritti dei singoli, siano gli strumenti migliori per combattere certi tipi di delitti (…). E continueranno a crederlo».



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