Se si leggono i risultati delle ricerche sullo stato di salute del cristianesimo in Europa, può sorgere il sospetto che stia soffrendo di una crisi profonda con poche vie di uscita. Verrebbe da dire che il far parte di una chiesa (cattolica o protestante o anglicana) e il praticare una religione sono in caduta libera. Certo è che tutto cambia rispetto a un passato anche recente. I banchi delle chiese sempre più vuoti, con l’assenza evidentissima dei giovani, ma anche di meno giovani, lasciano trasparire un probabile disinteresse per la dimensione della fede, il che porterà come conseguenza un ulteriore dimagrimento del numero dei cristiani. Cambia anche il modo di intendere Dio e di rapportarsi con la sua parola, vale a dire con il Vangelo. La tentazione ricorrente è di ricondurre il tutto al proprio io quasi facendone un assoluto. E tuttavia è possibile vedere in questo atteggiamento un aspetto positivo: donne e uomini di oggi, particolarmente le nuove generazioni, vogliono prendere in mano la propria vita, non intendono lasciare che qualcuno, fosse anche in nome di Dio, cerchi di limitarne la libertà e la responsabilità. Su questo terreno le chiese si giocano la credibilità.
Ma, osserva Luca Diotallevi, sociologo, da cosa si può capire lo stato di salute del cristianesimo? «Dal numero dei battezzati? Dalla frequenza ai riti? Dal numero delle persone che esonerano il loro figlio dall’ora di religione? Dal numero dei nuovi preti? E se poi andiamo più in profondità, come è possibile valutare la condizione di salute di una intima appartenenza come la fede in Dio?» Se guardiamo all’Africa, resteremo sbalorditi proprio dalla crescita del numero dei cristiani. Dal 1900 al 2000 sono aumentati dagli iniziali 10 milioni a più di 360 milioni, dal 10% della popolazione al 46%.
Ma bastano questi numeri per affermare che in quel continente il cristianesimo gode ottima salute? Difficile dirlo. Certamente in Europa e nel mondo occidentale fa riflettere la frase di Gesù: «Quando il figlio dell’uomo verrà, troverà ancora la fede sulla terra?» (Lc 18,8) Personalmente non credo che la religione scomparirà, e nemmeno che la chiesa diventi insignificante. È certamente verificabile da tutti che sta facendosi strada un certo disinteresse per la dimensione della fede anche in chi dichiara di far parte della chiesa. Questo è un dato che risulta evidente soprattutto da una ricerca fatta in Germania un paio di anni fa, ma che appare essere rilevante anche da noi. La fede per molti cristiani non dà più certezze per quanto riguarda la dimensione della trascendenza e della vita dopo la morte. Non sono pochi coloro che, sentendo parlare di risurrezione, si comportano come gli abitanti di Atene con San Paolo: «Su questo ti ascolteremo un’altra volta».
Non tutti in ogni modo sono convinti che la religione, pur vivendo tempi difficili, sia destinata a regredire: semplicemente, pensano, stia cambiando le proprie forme di manifestazione. «Se prima si esprimeva andando in chiesa, oggi può farlo mediante una passeggiata nel bosco alla ricerca dell’armonia cosmica o di un semplice star bene con sé stessi, oppure nel sorseggiare una tisana in una stanza illuminata da candele e profumata mediante qualche essenza». (Fulvio Ferrario, in Confronti, febbraio 2023). È dunque qualcosa di nuovo, probabilmente destinato ancora a cambiamenti importanti. E cosa ne sarà della Chiesa? Come si comporterà? Nel 1969 Joseph Ratzinger scriveva: «Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi… Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali, … non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra».
Io aggiungerei che nemmeno ora può arrogarsi il diritto di stabilire chi ha fede e chi non ne ha, come si manifesta e come no, chi è degno di accostarsi ai sacramenti e chi no. La diminuzione dei fedeli alla messa domenicale, ad esempio, più che essere il segno di una fede che non c’è, è un pressante invito a un ascolto delle persone, di ogni persona. Ascoltando la vita non si smarrirà la Parola di Dio. Il discepolo di Gesù deve saper ascoltare e testimoniare, senza giudicare. L’osservare le regole non è di per sé segno di fede, di figli che si affidano e si fidano di Dio. La parabola del Padre buono (conosciuta generalmente come parabola del figliol prodigo) racconta che il figlio maggiore, quello che resta sempre a casa, ha un rapporto più di servo che di figlio. E ancora: chi dice di sapere chi è Gesù, come Pietro, di fatto lo fraintende; chi pensa di seguirlo (come i figli di Zebedeo) in realtà cercano il potere. La prima confessione di fede che compare nel Vangelo è messa in bocca a un indemoniato: «Io so chi sei: il Santo di Dio!» (Mc. 1,23) L’ironia di Marco è al limite del sarcasmo; ci mette di fronte al caso serio della fede, al rischio di fraintendere le parole e il modo con cui la esprimiamo. Anche la chiesa va dunque vista come una comunità di discepoli e discepole inadeguati, al seguito di Gesù, che sempre ci sorprende e ci supera. E ci chiede di essere testimoni, magari silenziosi, di un Dio che salva.
