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Lorenza Menapace, regina della mountain bike

lun 21 ago 2023 10:08 • By: Giulia Colangeli

La donna dei record e delle gare a tappe si racconta dopo l’ultimo trionfo

Lorenza Menapace è la donna dei record e delle gare a tappe. In questa lunga ed emozionante intervista l'atleta nonesa di nascita e solandra di adozione si racconta, dopo l’ultimo trionfo nella Transalp 2023

Perché proprio la bici? Com’è nata questa passione?

Prima correvo in montagna, dopo mi sono massacrata e mi hanno detto: “Nuoto o bici?”. Il nuoto era fuori discussione, chiusa dentro quattro mura? Mai. Allora ho provato la bici, la mountain bike perché mi piace andare per boschi. Ricordo ancora la prima salita che ho fatto con una bici da seicento euro e… se partivo da qua e andavo a casa dei miei in Val di Non di corsa e senza problemi, solo due chilometri in bici e mi dicevo “Me ven ‘na sincope e moro”. Tanto che il ragazzo con cui stavo andando voleva andare al Mezòl, e io a un certo punto gli ho detto: “Marco m’è venuto in mente che devo far la cena a Enrico che viene a casa prima!”. Falsa, ma stavo morendo. Mi sono detta che tanto la bici non era il mio sport. Un nostro amico, il mio primo allenatore Germano, mi aveva detto di aspettare due o tre settimane di pazienza, di andare due o tre volte a settimana e le cose sarebbero cambiate. E poi… è uscita la passione.

E da dove ha preso il via la tua carriera agonistica?

Ho iniziato per insicurezza. Ricordo che un giorno mi hanno invitata a una 24 Ore in squadra (gara che vince chi, nel tempo di 24 ore, percorre il tragitto più lungo) e io vedevo queste ragazze e pensavo: “Le invidio, le invidio perché riescono a fare una cosa del genere, sono supereroi”. Le guardavo, le guardavo, e in squadre da otto facevamo un giro a testa, figurati, bella tranquilla. L’anno successivo mi sono detta di voler provare e vedere dove sarei arrivata. Talmente furba che io imitavo le altre ragazze: se si fermavano, mi fermavo - anche se non avevo necessità, tattica zero proprio - e alla mia prima 24 Ore sono arrivata terza. Poi ho iniziato a migliorare e migliorare e fondamentalmente ho vinto tutte quelle che ho fatto. Mi definivano la ‘Regina delle 24 Ore’ e per quattro o cinque anni ho fatto l’impossibile.

E ancora non ti convincevi del tuo valore?

No. Poi… un giorno ero in Val Rendena a fare una 24 Ore, non stavo neanche tanto bene e mi fermavo spesso, ma ero ancora prima. All’una di notte mi sono detta: “Ma che faccio io qua? Cosa dimostro e a chi?”. Così sono tornata da mio marito che mi faceva assistenza e gli ho detto: “Bon, Enrico, basta”. Lui pensava stessi male. “Ma no - gli ho detto - non è più il mio posto”. Fu una litigata colossale con quel pover’uomo, ma per me era finita: avevo dato quel che potevo dare.

Cosa ti ha spinta a cambiare?

Mi sono rimessa in gioco facendo gare più corte, dove era necessaria più tecnica. Le 24 Ore sono gare di testa: io ero lì e sognavo, sognavo, mi mettevo nella mia bolla e nessuno mi disturbava a livello tecnico, tranne una o due volte. Questa sensazione di abbandono, in un cerchio perfetto, me la godevo e sognavo. Poi sono andata a fare le classiche gare che fanno tutti e ho cominciato a vincere, a vincere. Ma quelle gare non le sentivo mie, era tutto troppo agonistico, una continua competizione contro gli altri e io non sono fatta così. Poi ho cominciato a fare le gare a tappe per scherzo, e lì devi avere un bel rapporto con la persona con la quale sei in gara… e ne ho fatte ovunque. Dal Sud Africa alle Ande, in Sicilia… e le ho vinte quasi tutte. E lì è bellissimo perché condividi qualcosa con qualcuno.

Fai un vero e proprio viaggio… ma non è impegnativa anche una costante condivisione?

Esatto, un viaggio che può essere bello e non bello. Ho avuto anche brutte esperienze, soprattutto in mixed team con compagni uomini. Poi ho cominciato a correre con una ragazza inglese, con la quale però c’era troppo divario e lei non se l’è sentita di continuare con me. Finché ho trovato questa ragazza francese, Daniéle Troesch, che nella vita fa la professoressa e si occupa di bambini autistici. In gara non ci parliamo, ci guardiamo e sorridiamo. Condividere ogni momento, nella stanza e in gara per una settimana, è una cosa meravigliosa. Con lei ho fatto varie gare e le abbiamo vinte tutte: in Appennino, la scorsa Transalp… anche se ne ho vinte tre consecutive di Transalp, sono l’unica donnina ad aver fatto questo.

Un anno fa, proprio nel giorno di San Lorenzo, hai realizzato qualcosa di incredibile, accumulando più di 10.000 metri di dislivello in 24 ore: come hai vissuto un’impresa simile?

Quel tentativo di record è stato una cosa meravigliosa, la più bella di tutte, con la mente ero tornata alle 24 Ore. A un certo punto Enrico mi fa: “Guarda che sono le quattro del mattino”, ma non me n’ero accorta e avrei continuato, continuato e continuato. E tutti a dirmi non farlo lì, è troppo ripido, con una mountain bike non ce la fai… Ma io in gara uso solo quella. Dopo, per divertirmi uso la gravel e per allenarmi la bici da strada, ma sono solo mezzi. La mountain bike mi fa stare bene, mi permette di andare dove sto bene, nei boschi.

Com’è strutturato il tuo allenamento?

Normalmente mi alleno tutti i giorni tranne il martedì, che è quello in cui ho più stanchezza per i tipi di carico e di allenamento che faccio. Venerdì, sabato e domenica carico tantissimo, faccio dei lunghi con lavori in salita, anche due o tremila metri di dislivello. Il lunedì mattina faccio un’uscita presto, intorno alle quattro e mezza del mattino in estate, altrimenti in pausa pranzo o dopo il lavoro. Martedì che riposo faccio una sgambatina oppure riposo totale: un massaggio, una sauna. Mercoledì carico di nuovo con lavori specifici, circa due ore di cui venti minuti di riscaldamento e venti di defaticamento; in mezzo c’è un allenamento specifico noiosissimo, sia in pianura che in salita, per migliorare la performance. Giovedì ho due ore con dei richiami di forza e rapporti molto lunghi, poi i giorni successivi spingo fino a domenica. In settimana faccio anche dodicimila metri di dislivello, con quasi quattrocento chilometri. Quando ho una gara a tappe fino al mercoledì faccio allenamenti specifici, poi basta, piccole sgambatine e vado dietro con l’alimentazione.

E il tuo rapporto con il cibo, un’alimentazione bilanciata e che sostenga i tuoi carichi, che posto occupa nel tuo piano di allenamento e nella tua quotidianità?

Ho chiesto alla mia nutrizionista di insegnarmi cos’è che sto buttando dentro al mio corpo, che sia sempre qualcosa che mi fa bene e non male. Da quando seguo le sue indicazioni e faccio tre volte l’anno dei test per vedere i miei valori allenanti, la cosa stupefacente sta nel fatto che una volta curata l’alimentazione, e non in modo ossessivo, sono migliorate le mie prestazioni anno per anno, quando in realtà dovrebbero andar giù… superati i cinquanta. Prima della gara a tappe poi faccio la Scandinava, una dieta che su di me funziona e non è detto che funzioni su tutti: faccio i primi tre giorni uno scarico di carboidrati (arrivo al mercoledì che praticamente i carboidrati non li vedo e ti assicuro che è dura, ho le visioni mistiche da star male). Ho una sensazione di spossatezza allucinante, e poi inizio a caricare, ad arrivare quasi a non mangiare più proteine: per riempire tutti i miei serbatoi pre-gara. Con la Scandinava mi trovo bene, c’è chi non la sopporta (ed è comunque difficile da sopportare, scarichi talmente tanto di carboidrati e carichi di proteine che quasi non riesci a dormire). Svuoti prima, riempi dopo. Poi in gara credo che il corpo chieda ciò di cui ha bisogno: a una gara senza assistenza son finita a mangiare strangolapreti con il burro fuso per colazione, e poi sono ripartita.

Come reagisce il tuo corpo in gara? Come gestisci la fatica o i dolori?

Il segreto è che all’inizio vado a una potenza misurata, però, e forse è un mio problema, non arrivo mai al mio limite. Non sono mai arrivata a dire “basta, non ce la faccio più”. Questo mi dispiace un po’ perché vuol dire che non riesco a dare tutto quello che potrei dare. Ho fatto gare bellissime, anche qui in Trentino, dove ho scoperto strade che non conoscevo (e mi sono persa un paio di volte). Ho gareggiato anche in Sardegna, e là per la paura cantavo: se qui, ogni tanto, vedi le luci in valle, in Sardegna proprio niente, la notte è buia. Quella volta ho gareggiato con un ragazzo bresciano e cantavamo per tenerci svegli. Era il 2010 o 2011, ricordo ancora il profumo delle piante, giuro. E le stelle. Tutto era come se prendessi l’energia dalla terra, risucchiandola in me e respirandola fuori.

Ci vuole tanta testa per restare sul pezzo, quasi più delle gambe. Lo sport e la disciplina hanno sempre giocato un ruolo principale nella tua vita?

Ho sempre fatto atletica fin da piccola, ho smesso quando il mio allenatore mi disse che non avevo il carattere per soffrire, avevo soltanto talento e che quindi ero sprecata. Quando ci siamo incontrati, dopo anni e dopo aver vinto una serie di 24 Ore, mi ha detto: “Mi sono proprio sbagliato su di te”. Da bambina ero timida, non parlavo, facevo quello che mi diceva di fare e anche adesso non arrivo mai al limite: se mi vedi in gara non sembro stanca, dopo le gare o durante le interviste non è che mi vedi sfatta. Tempo di tornare a casa a farmi la doccia e poi una pizza al Pancafè… Ma lui non è andato a vedere quello che c’era sotto la mia timidezza. Quando seguo i bambini mi ripeto sempre che non vorrei che passassero quello che ho passato io. Anche perché sarebbe potuto uscire qualcosa da lì, invece che farmi perdere tempo e sicurezza. Io lì avevo smesso, non facevo più niente, poi ho fatto pallavolo e poi ho ricominciato a correre in montagna e mi sono massacrata il tendine d’achille, quindi ho optato per la bici.

Secondo la tua esperienza, è possibile guadagnarsi da vivere come atleta?

In Italia no, a meno che tu non faccia parte di un gruppo sportivo. Negli sport di montagna come lo scialpinismo, mountain bike, corsa in montagna… Sono casi rarissimi le atlete che possono vivere in modo ‘decente’. Di certo non vivono solo con quello, ma con sponsor, o facendo foto come reporter per le gare, ma se vuoi costruire cose nella vita è difficile. All’estero è un po’ diverso, conosco tante atlete che riescono ad avere qualcosina in più e ci vivono. Parlo di donne perché, come sempre, gli uomini sono trattati ben diversamente anche coi premi alle gare, perché a parità di percorsi sono rarissime le gare in cui i montepremi sono pari tra uomini e donne.

Qual è la lezione più grande che ti ha lasciato lo sport, il modo in cui tu lo hai vissuto e lo vivi adesso?

Per me lo sport è lo specchio della vita, non è che si differenzia molto come affronti lo sport e la vita: senza niente non ottieni niente e l’importante è proprio la disciplina. Non è vero che la disciplina è un limite, se sei disciplinato puoi ampliare i tuoi limiti. Io faccio quello che faccio per me. Prendo il mio ritmo, penso alle mie cose, è una cosa mia e solo mia, non devo dimostrare niente a nessuno e me la godo da sola. Se ho male al piede o chissà dove, mi concentro e il male mi passa. Lavoro tanto sulla respirazione, come un mantra, come un rosario, una respirazione sempre uguale che mi fa concentrare tanto da non accorgermi dove passo. Non senti la fatica, niente, come se qualcosa venisse su dalla terra. Questo mi era successo anche in Cile, in zona di vulcani: una gara pazzesca, di giorno trenta gradi e di notte due (mi sono ‘mbrumata che lasciamo perdere), dormivamo nelle tende… ho ancora l’immagine stampata in mente.

Puoi raccontarla?

Sono scesa da una foresta e salita dove c’era tutta roccia rossa, vedevo un cucuzzolo di neve dove c’era il vulcano, il cielo azzurro delle prime ore del mattino, alberi bruciati da un incendio… e mi ricordo che lì mi sono detta: se uno non crede, che fa? Deve credere in qualcosa, in un Dio qualsiasi, un Creatore, perché non è possibile una cosa del genere. E quando entro in questi ambienti… non avevo l’acqua, mi faceva male da morire un piede, niente: salita di sette chilometri che non ce la facevo più ma ho cominciato a respirare, a ringraziare non so cosa per vivere una cosa del genere, sono arrivata su e ne ho passati quattro o cinque. Non so cosa mi succede, è come se mangiassi, bevessi, non so dirti. Però soltanto certi tipi di gare riescono a darmi queste sensazioni. In Cile ero andata da sola, non avevo assistenza di nessun tipo, ma non credevo nemmeno potessi bucare, non ci pensavo: con questo movimento circolare, del respiro e delle ruote della bici, sognavo. Se chiunque provasse quello che provo io mentre pedalo, non mi chiederebbe più perché lo faccio, perché è talmente bello e intenso che lo cerchi ancora, ancora e ancora.

 



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