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Una lettera per la comunità

dom 12 lug 2020 06:07 • By: Renato Pellegrini

La pandemia e la nostra vulnerabilità

Ogni anno, in occasione della solennità di San Vigilio (26 giugno), patrono della città e della diocesi di Trento, il vescovo Lauro distribuisce ai fedeli una «lettera alla comunità», nella quale offre spunti per una serena riflessione pastorale.

Quest’anno non poteva non mettere al centro del suo ragionare la vicenda drammatica che abbiamo vissuto a causa della pandemia. Il titolo è già di per sé significativo e dà una chiara indicazione per una lettura non banale: «#noirestiamovulnerabili».

Quello che abbiamo vissuto è, secondo il vescovo, «una fragilità universale», non riconducibile soltanto all’emergenza sanitaria, ma che porta anche a prendere in seria considerazione «il tema delle disuguaglianze sociali a livello globale». L’ONU, infatti, ha già prospettato carestie di proporzioni bibliche entro poco tempo nei Paesi più poveri, con un aumento delle potenziali vittime per fame da 135 a 250 milioni di persone.

La fragilità, insomma è un segno distintivo dell’essere umano, che riguarda le malattie e una terra che sembra ribellarsi allo sfruttamento insensato a cui è sottoposta. È appena passata la crisi più acuta, almeno da noi, del Covid 19, è già stata dimenticata.

Don Lauro lo annota quando scrive che «sembra svanire la memoria delle bare allineate in modo anonimo e caricate come in guerra su camion militari, degli ospedali trasformati quasi integralmente in terapie intensive, delle strutture di assistenza per anziani dove al lamento in solitudine dei morenti faceva eco la splendida dedizione degli operatori».

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Che la memoria umana sia piuttosto fragile lo possiamo notare nei modi di vivere che abbiamo assunto dopo il lungo silenzio del lockdown.

Il distanziamento regolamentare sembra parte di un tempo lontano, da ricordare sui libri di storia e la mascherina, portata da molti al braccio, come un vezzo, pare quasi un segnale messo lì per contentare gli adulti. Ci sono però per le nostre strade anche sguardi severi e anche talvolta quasi acri, quelli di alcuni anziani ai giovani in questa estate. Si percepisce dentro quello sguardo un fondo di paura. Come se il pensiero non detto fosse: voi ci mettete a rischio…

L’emergenza, annota ancora il vescovo, «ha scosso le fondamenta delle nostre comunità cristiane, cancellando appuntamenti e prassi ritenute imprescindibili». Abbiamo visto chiese vuote e poi chiuse, messe non più celebrate. Si potevano seguire sui social. Ma non è stata la cosa peggiore; più difficile è ora riempire «di nuovi contenuti esistenziali il nostro streaming ecclesiale».

La Chiesa è chiamata a diventare davvero un ospedale da campo, come l’ha definita papa Francesco, curando tante ferite, accogliendo tante domande. A me piace immaginare una «messa» celebrata aiutando chi è solo, emarginato o rifiutato, mettendo in pratica la Parola del Vangelo che invita ad accogliere ogni persona, stranieri compresi, che s’accorge di chi porta dentro di sé lesioni non guarite, che tende la mano a chi ha perso la speranza. Se la Chiesa non diventa questo luogo per tutti gli uomini, questo ospedale in grado di curare, rischia la sua sopravvivenza.

Il vescovo ne è consapevole quando scrive, citando ancora il papa, che poco prima della sua elezione affermava che «Cristo, presente dentro la Chiesa sta bussando e vuole uscire». Vuole uscire e incontrare chi lo cerca, perché succede anche oggi che «le persone a lui più vicine e più care» sono incapaci di riconoscerlo. La lettera termina ricordando la morte del musicista e direttore d’orchestra Ezio Bosso, che scriveva poco prima di morire: «Viviamo sempre come fosse la prima volta, come se il nostro fosse il primo respiro e come se fosse l’ultimo».

Vorrei ricordare, in conclusione, un altro musicista, compositore di colonne sonore indimenticabili di tantissimi film e maestro di umanità. Si tratta di Ennio Morricone, morto all’età di 91 anni il 6 luglio scorso. È stato un uomo del nostro tempo, un credente in Dio «con qualche perplessità sul dopo», come amava dire. Ma nella vita «esistono la tenuta, la coerenza, la serietà e la durata, come nell’amore e nell’arte». Sono qualità che servono anche per la testimonianza dei cristiani e la sopravvivenza di una chiesa credibile.



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