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Ricordare per vincere il male

dom 29 gen 2023 10:01 • By: Renato Pellegrini

Mettere in moto le coscienze perché il passato non ritorni

«Quel che ora penso veramente è che il male non è mai ‘radicale’, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso ‘sfida’ come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua ‘banalità’. Solo il bene è profondo e può essere radicale”». Questo pensiero di Hanna Arendt si legge nel libro intitolato «La banalità del male». Ci mette davanti alle nostre responsabilità, alle nostre paure, ma anche alla nostra superficialità. Tanti, tantissimi uomini comuni, molti di questi credenti, che in nome di una presunta obbedienza e fedeltà a valori e idee, sono stati incapaci di distinguere tra giusto e sbagliato e hanno trovato la forza, giustificandosi, di trasformare le persone in numeri, di trasformare le vite di donne e uomini, vecchi e bambini in cifre. Ebrei e rom, testimoni di Geova e oppositori al regime hanno trovato la morte nei lager, gettati in fosse comuni o bruciati.

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Come non avessero un nome, una famiglia, come non fossero persone. E il mondo non sapeva. O forse taceva. Ma come è potuto accadere tutto quell’orrore? C’è chi pensa che occorre una ideologia forte, tenace, capace di trasformare l’essere umano prima in nemico e poi in una bestia da togliere di mezzo.Un’ideologia che non risparmia niente e nessuno, che nel momento in cui rivela la sua debolezza e il suo fallimento non tiene in nessuna considerazione né i familiari, né se stessi. Dopo che l’Armata Rossa era entrata in Berlino la moglie di Goebbels uccise i suoi sei figli nel bunker di Hitler e poi pose fine anche alla sua vita e a quella del marito. È come non voler guardare i massacri compiuti, pensare di aver ragione delle uccisioni, di non dover chiedere perdono, di non voler riparare. È sentirsi tragicamente parte di una razza superiore che non c’è. Se non vogliamo che la crudeltà diventi il modo normale di vivere bisogna dare un nome agli eventi, farli entrare nella mente, non lasciarli muti dentro di noi. La Shoah è una catastrofe che segnerà per sempre il tempo dell’umanità: il suo vero nome è genocidio, odio verso un popolo, verso ogni diversità. A parlare della Shoah come genocidio è stato fra i primi uno storico israeliano, il quale ha subito aggiunto che «non c’è differenza tra la sofferenza degli ebrei, dei russi, dei cinesi, dei congolesi o di qualsiasi popolo che se sia trovato in un omicidio di massa genocidiario. Non esiste una gradazione nella sofferenza… Non esiste dunque alcun genocidio peggiore di un altro, L’idea di competizione non è solo ripugnante. Ma totalmente illogica». (Yehuda Bauer) E dunque è sempre più urgente e necessario, perché tutto non si dimentichi e dell’orrore della Shoah rimanga solo una riga scritta sui libri di storia, come ha detto Liliana Segre, guardare ai genocidi avvenuti nel secolo scorso (quello degli Armeni per mano dei turchi tra il 1915 e il 1916 e quello pianificato da Stalin contro gli Ucraini con la grande carestia nel 1933-34) e a quelli che continuano ad avvenire in questo nostro terzo millennio, nel resto del mondo. A me sembra che sia importante, per quanto faticoso, mettere in moto la coscienza, lo spirito critico, il senso di responsabilità soprattutto in tempi di paura e di incertezza. Perché ciò che è avvenuto non ritorni.


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