dom 05 feb 2023 09:02 • Dalla redazione
Uno studio rivela gli effetti di lungo periodo sulla fauna selvatica della frequentazione escursionistica negli ambienti montani
TRENTO. Negli ultimi decenni il territorio alpino è molto cambiato: l’abbandono delle pratiche di agricoltura e pastorizia, in molte aree, ha consentito una rigenerazione naturale delle foreste e molte specie di mammiferi hanno ritrovato nel bosco il loro habitat naturale. Al contempo però, la frequentazione turistica di queste aree è aumentata, come in gran parte dei Paesi ad alto reddito del mondo, creando un potenziale disturbo per gli animali selvatici.
Le aree naturali sono diventate destinazioni popolari per le attività
ricreative all’aria aperta, svolgendo un ruolo cruciale nel ricollegare le
persone al mondo naturale in una società sempre più urbanizzata. Tuttavia,
mentre la domanda di turismo naturalistico continua ad aumentare a livello
globale, cresce anche la preoccupazione per i possibili effetti collaterali
sulla biodiversità e in particolare sulla fauna selvatica. Come reagiscono gli
animali selvatici a questa crescente presenza di esseri umani nei loro habitat?
Ci sono effetti negativi nel lungo periodo? La ricerca del MUSE e
dell’Università di Firenze "Crowded mountains: Long-term effects of human
outdoor recreation on a community of wild mammals monitored with systematic
camera trapping" fa luce su questo tema, dimostrando inoltre come un’attività
di monitoraggio scientifico standardizzato sia fondamentale per misurare la
sostenibilità ambientale delle attività umane e per raggiungere gli obiettivi
di lotta alla crisi della biodiversità posti dall’ONU.
Lo studio ha utilizzato 60 fototrappole in modo sistematico - ogni estate - a
partire dal 2015 in un’area delle Dolomiti del Trentino occidentale altamente
frequentata da escursionisti, al fine di rilevare i passaggi di animali e
persone e monitorare la fauna per studiarne le possibili risposte.
“I risultati delle analisi – spiega Marco
Salvatori, dottorando dell’Università di Firenze in collaborazione con il MUSE
e primo autore dello studio – ci mostrano che delle oltre 500 mila foto
raccolte in 7 anni di ricerca (dal 2015 al 2022) il 70% ritrae persone e il
tasso di passaggio umano di fronte alle fototrappole è stato 7 volte superiore
a quello della specie selvatica più comune nell’area, la volpe, e addirittura
70 volte superiore a quello dell’orso, la specie che è risultata più raramente
fotografata. Il passaggio delle persone inoltre non differisce fra le
fototrappole presenti all’interno del Parco Naturale Adamello-Brenta e quelle
poste al di fuori, dimostrando, come prevedibile, una potenziale pressione
anche all’interno dell’area protetta”. Nonostante questa frequentazione
umana molto intensa, tuttavia, le specie studiate hanno mostrato tendenze di
presenza stabili e in alcuni casi anche in crescita, un segnale rassicurante
per la loro conservazione.
Tutte le 8 specie considerate (orso, cervo, camoscio, capriolo, tasso, volpe,
lepre e faina) hanno rivelato una chiara risposta comportamentale al disturbo
provocato dal passaggio delle persone: nelle zone più frequentate diventano più
notturne per diminuire la probabilità di incontrare persone, e concentrano le
loro attività di notte anche quando si trovano più vicino ai centri abitati.
Non solo, le specie di maggiori dimensioni, come l’orso, il cervo e il
camoscio, esibiscono anche una chiara tendenza ad evitare di frequentare le
zone in cui il passaggio umano è più intenso. Anche questo può essere
considerato un segnale incoraggiante per la convivenza uomo-fauna selvatica.
I risultati dello studio dimostrano quindi come gli animali selvatici mettano
in atto tutte le strategie a loro disposizione per minimizzare le probabilità
di incontro con le persone. Questi comportamenti non sono però “gratuiti” per
gli animali, ma costituiscono un potenziale costo in termini di maggiori
difficoltà di movimento, una regolazione non ottimale della temperatura corporea,
l’utilizzo di aree meno produttive in termini di risorse alimentari.
“In conclusione – afferma Francesco
Rovero, docente di ecologia dell’Università di Firenze e coordinatore dello
studio - la tendenza a una maggiore notturnalità è una risposta comportamentale
comune a molti mammiferi esposti alla presenza di grandi numeri di persone,
come testimoniano anche diverse ricerche a livello internazionale. Se, da parte
degli animali, l’impegno a evitare il contatto con gli esseri umani è notevole,
ora sta anche a noi umani fare attenzione adottando – ad esempio – alcune
misure per limitare l’accesso ad alcune aree dei parchi naturali nei periodi
dell’anno più delicati per la fauna, una strategia già ampliamente applicata in
molte parti del mondo”.
Link allo studio: https://rdcu.be/c29Yi