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Don Milani, eretico e profeta

dom 04 giu 2023 09:06 • By: Renato Pellegrini

Un ritratto del prete di Barbiana a cento anni dalla nascita

Cento anni fa, il 27 maggio 1923, da una famiglia di matrice ebraica, borghese e intellettuale, nasceva Lorenzo Domenico Milani Camparetti, che tutti conosciamo più semplicemente come don Milani, il prete eretico per la gerarchia della chiesa del tempo, profeta per molti cercatori di umanità vera e fede profonda. Non fu un prete accomodante.

Diceva infatti: «Chi l’ha detto che il prete deve farsi voler bene? A Gesù non interessava o non gli è riuscito». Fu battezzato che aveva dieci anni e nel 1943, a Firenze, cominciò un cammino spirituale impegnativo, che lo porterà quattro anni dopo al sacerdozio. Era il 13 luglio 1947.

Fu relegato dall’incomprensione ecclesiastica nel Mugello, a Barbiana, frazione del comune di Vicchio, che diventerà famosa proprio per la genialità e la fede di questo prete. Là rimase fin quasi alla morte, avvenuta a Firenze per una grave malattia nel 1967.

A cento anni dalla nascita sappiamo che la sua voce è risuonata nel deserto un po’ come quella di Giovanni Battista. Perché non era voce che taceva i problemi e non indicava percorsi; scuoteva le coscienze, anticipava i tempi «collocandosi nei crocevia più roventi della società» (G. Ravasi). Basti pensare ai suoi scritti: Esperienze pastorali (1958), L’obbedienza non è più una virtù, Lettera a una professoressa (1967), preceduta dalla Lettera ai cappellani militari (1965) che difendeva l’obiezione di coscienza e che gli costò una condanna per apologia di reato, pronunciata a un anno dalla sua morte.

Ai ragazzi della scuola di Barbiana confessava nel suo testamento: «Ho voluto più bene a voi che a Dio; ma ho speranza che lui non sia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto sul suo conto». Il suo amore per ogni persona, soprattutto se povera ed emarginata, era totale: «Il cuore dell’uomo è qualcosa che i libri non sanno leggere né catalogare. Un’anima non si muta con una parola», scriveva a quella professoressa rigida nel suo ottuso sapere e inesorabile nel suo giudizio su un’esperienza didattica davvero creativa.

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Non usava molte parole don Milani per mettere in guardia coloro che chiamavano giustizia il trattare tutti allo stesso modo, perché «il massimo della disuguaglianza è fare parti uguali fra diseguali», convinto che un solo «atto coerente isolato è la più grande incoerenza» e che non si deve aver paura «di sporcarsi le mani» perché, si chiedeva, «a che servirà averle pulite se le avremo tenute in tasca?»

Era un prete che sapeva e voleva guardare al mondo schierandosi sempre senza esitazione: «Se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora io reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall'altro. Gli uni sono la mia patria, gli altri i miei stranieri».

La sua era una fede appassionata: «Se dicessi che credo in Dio, direi troppo poco perché gli voglio bene. E volere bene a uno è qualcosa di più che credere nella sua esistenza».

Pur incompreso dalla Chiesa, non pensò mai di lasciarla. La sua opera principale fu senz’altro Esperienze pastorali, le cui righe sono già stilisticamente di un’essenzialità assoluta e programmatica, come egli stesso affermava in una sua lettera: «Lo stare per mesi su una frase sola togliendo via tutto quello che si può togliere», spogliando la verità da ogni paludamento retorico e dal manto dorato dell’ipocrisia.

Infatti, «siamo in un mondo in agonia che Dio forse sta accecando per castigarlo per aver troppo e troppo male usato l’intelletto, oppure di non averne fatto parte agli infelici».

E alla fine il bilancio del suo impegno di pastore e di educatore era stato sorprendente: «Devo tutto quello che so ai giovani operai e contadini cui ho fatto scuola. Quello che loro credevano di stare imparando da me, son io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere».

Alla base, infatti, del suo insegnamento c’era soprattutto la ricerca condotta in comune tra insegnanti e discepoli. È ciò che avrebbe ribadito una figura lontana da don Lorenzo in tutti i sensi, come Roland Barthes, quando riconosceva che «vi è un’età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un’altra in cui si insegna ciò che non si sa, e questo si chiama cercare». In questo che non è un ritratto ma solo un’evocazione simpatetica di un sacerdote e testimone dalla storia tormentata e gloriosa, nel centenario della sua nascita, è stato naturale lasciare a lui la parola.

La conclusione, però, dovrebbe essere affidata a un’immagine del 20 giugno 2017: papa Francesco in piedi, a capo chino e in silenzio, davanti alla tomba di don Milani in quel piccolo e semplice camposanto di campagna. Enzo Biagi aveva scritto: «È sepolto nel cimitero di Barbiana, sperduto e vuoto paese abitato dagli spiriti. Ma don Lorenzo parla ancora». E parla guidando specialmente i cristiani a una vita coerente col Vangelo, capaci di dare dignità a ogni persona, a non schierarsi dalla parte dei ricchi o dei potenti, a scoprire che la verità la si incontra sul volto di chi con fatica conduce la sua vita. È stato il prete che ha scritto nell’aula della scuola di Barbiana: I care (mi interessa, mi sta a cuore), per invitare alla scelta scomoda di opporsi attivamente all’impercettibile ma spesso inesorabile scivolamento del «Me ne frego».

Non è dunque un pacificante siamo tutti più buoni. Vuol dire piuttosto scegliere la parte dei deboli e lottare contro le disuguaglianze, che crescono a vista d’occhio nel mondo civile e sviluppato; vuol dire anche impegno per costruire la pace, essere e sentirsi parte del creato, dell’ambiente e non sfruttarlo come se non vi fosse un domani. Vorrei che quest’anno in molti rileggessero i libri di un uomo che si è consumato per i poveri, per dare loro quella parola, quella lingua che permettono di non essere più schiavi dei padroni. In fondo è questo il compito della scuola: «non produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente».

Quanto ci manca, in giorni in cui viviamo senz’anima, credendo che basti il merito a salvare la scuola!



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