Comunità della Val di Sole Val di Sole

Serve pregare?

Dubbi, slanci e verità di una fede che cerca il senso tra le parole e i gesti

Serve pregare?

Uscendo di chiesa una domenica sera, dopo aver celebrato la messa, incontro un ragazzo che da tempo ormai ha smesso di frequentare gli ambienti parrocchiali. Ci siamo fermati a parlare. Dopo un po’ confessa che non capisce a cosa serva andare a messa e nemmeno a cosa serva pregare. A suo modo di vedere sono tutte formule imparate perché imposte fin da bambini, che si ripetono meccanicamente senza capirne il significato. E conclude dicendo che a suo modo di vedere è molto meglio fare qualcosa per gli altri.

Probabilmente non è del tutto sbagliato il suo ragionamento. Troppe volte la preghiera è una specie di passatempo, che non cambia nulla della propria vita. Eppure quando un cristiano recita qualche versetto dei salmi, s’accorge talvolta di parlare ed essere ascoltato, di rivolgersi a un “tu” invisibile ma non assente. Quando leggo: «Io ti amo, Signore, mia forza!», oppure: «Tu sei con me, non ho paura… sei la mia difesa» provo una sensazione di pace e quello che recito lo desidero. Posso tuttavia domandarmi se quel “tu” a cui mi rivolgo non sia un idolo, vale a dire un qualcosa che io mi sono fabbricato, un’illusione e niente di più. Che però mi fa bene. Esprimere il proprio amore per Dio può sollevare da paure, liberare almeno parzialmente dall’ansia, fare in modo di non sentirsi solo e abbandonato. Ma cosa vuol dire amare Dio?

San Giovanni ci dà qualche utile indicazione: amare il Signore significa mettere in pratica i suoi comandamenti. Con fermezza l’evangelista scrive che è bugiardo chi dice di amare Dio e non ama il fratello. E vive anche uno stato di confusione, perché confonde la preghiera con qualche slancio emotivo verso il Signore. Quando dico: Signore ti amo, devo anche sottintendere di amare il mio prossimo e cercare di tradurre le parole con i fatti. Enzo Bianchi mette bene in evidenza che «se vivo tanti slanci di amore per Gesù ma non sono accompagnati dal fare ciò che lui desidera, io non mi esercito alla comunione con il Signore, ma all’idolatria».

Anche i discepoli hanno chiesto a Gesù di insegnare loro a pregare (Lc. 11,1). Nemmeno per loro era un compito semplice, come non lo è per noi. Tante volte ci lamentiamo, infatti, di non saper pregare, di distrarci subito, di non sapere cosa dire. Ma probabilmente questo atteggiamento è già un inizio della preghiera, perché Dio non cerca parole perfette, accoglie anche un cuore stanco, ma sincero. Non dobbiamo aver paura di sfogarci con Dio. Giobbe (10,2), dopo aver sofferto molto, si lamenta con Dio: «Fammi sapere perché mi sei avversario. È forse bene per te opprimermi, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i progetti dei malvagi?»

Non avremo subito una risposta e il silenzio allora diventa preghiera. Gesù la preghiera l’ha insegnata: il padre nostro. E là è contenuta la traccia per ogni preghiera. In questo nostro tempo a me pare che dovremmo porre attenzione a una richiesta: «Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori», che vuol dire dacci la forza di perdonare, come Tu ci ha perdonato. Oggi dove purtroppo è l’odio, l’incomprensione, l’usare parole che feriscono a farla da padrone, per il cristiano diventa sempre più urgente guardare a Gesù e al suo esempio. Pregare è quindi leggere qualche breve brano della Scrittura lasciandoci interrogare da quelle parole. In questi nostri giorni difficili possiamo presentare a Dio il nostro stato d’animo, il nostro dolore, la nostra impotenza, come si legge nel libro di Esdra: (9,6) «Mio Dio, sono confuso, ho vergogna di alzare, Dio mio, la faccia verso di te, perché le nostre colpe si sono moltiplicate fin sopra la nostra testa; la nostra colpevolezza è aumentata fino al cielo». Quale colpevolezza? La violenza dilagante, il genocidio sopportato, la ricerca di un capro espiatorio che ci tolga la responsabilità.

Il profeta Abacuc (cap. 1) si rivolge al Signore con forza per cercare una soluzione: «Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: “Violenza!” e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese». Il male, l’errore ci sarà sempre in mezzo a noi e nemmeno la preghiera lo cancellerà totalmente. Pregare, però, può aiutare se non a sconfiggerlo, almeno ad allontanarlo e a donare un po’ di serenità. Sempre il profeta Abacuc, dopo i versetti sopra citati aggiunge la risposta di Dio: “Scrivi la visione e incidila bene sulle tavolette perché la si legga speditamente. È una visione che attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perché certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede”. Proviamo a leggere in questa prospettiva la preghiera di Maria, il Magnificat. Racconta le opere di Dio aiutandoci a diventare più umani. Racconta che l’opera di Dio è volta a creare un mondo nuovo che arriverà. Non conosciamo quanto sarà lunga l’attesa. E potremmo chiedere alla sentinella di Seir: «Sentinella quanto resta della notte?» (Isaia 21,11)

Quanto resta della notte della violenza, della corsa agli armamenti, dei poveri che diventano sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi? Probabilmente risponderà di non saperlo: l’alba verrà, purché non si spenga prima la speranza. Dobbiamo pregare per poter attendere e agire.