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Tra Sarajevo e Kiev, una storia comune lunga cent'anni

gio 07 apr 2022 • By: Alberto Mosca

Trent'anni fa la guerra in Bosnia, cent'anni fa la Grande guerra. Ora come allora, la guerra è tornata in Europa

Trent’anni fa la Bosnia, in questi giorni l’Ucraina: 1992-2022. Un anniversario che, andando più indietro nel tempo, ci porta alla Prima guerra mondiale e a una serie di interessanti punti in comune.

L’assedio di Sarajevo durò 1425 giorni e la guerra di Bosnia, iniziata nel 1992, terminò nel 1996 con i controversi accordi di Dayton. Solamente otto anni prima, la Gerusalemme d’Europa aveva ospitato le Olimpiadi invernali. Ricordo ancora le grandi affissioni a memoria di quell’evento poste in giro per la città, crivellate dai colpi dell’artiglieria serba che sparava da quel monte Igman dove si erano tenute le gare. Una di queste affissioni era nella piazza del Mercato: lì morirono 68 persone sotto il tiro vigliacco del nemico. Con la dissoluzione della Jugoslavia, la guerra tornava in Europa dopo esserne stata assente dal 1945; poi nel 1999 arrivò la fine dei conti con la Serbia, e ora, dopo altri 23 anni, è l’Ucraina a bruciare. 

Allora come ora, epicentro di questi fatti sono territori che furono parte del grande impero asburgico che comprendeva anche le nostre valli: tirolesi, bosniaci, galiziani avevano in comune la figura dell’imperatore. Ancora oggi, sentire nelle cronache quotidiane i nomi di Leopoli e di Przemysl un po’ di impressione la fa; mio nonno poi, quando parlava della tragica ritirata di Russia che aveva vissuto in prima persona, citava Kiev e molte altre località che oggi appaiono in tv, travolte da un’altra guerra.

Allora come ora, aggressori e aggrediti: cent’anni fa, gli imperi centrali accesero l’incendio dopo l’assassinio di Francesco Ferdinando e della moglie. E torniamo a Sarajevo. Trent’anni fa la Serbia, ortodossa e filorussa intraprese quell’odiosa campagna di pulizia etnica e oggi è la Russia, con l’appoggio morale della Chiesa ortodossa, a invadere l’Ucraina, terra in cui vi sono fedeli ortodossi e cattolici. Allora come ora, una guerra sporca, criminale, segnata dall’azione di feroci milizie paramilitari, dalla deportazione su base etnica.

E allora come ora, se pensiamo all’incendio jugoslavo e a quanto accade oggi, è stata la voglia di guardare a Occidente, all’Unione Europea e all’Alleanza Atlantica, ma più in generale a un modello di vita e di democrazia, a suscitare la reazione di un mondo legato ad una vecchia tradizione.

Trent’anni fa l’egida serba, oggi quella russa sui popoli “fratelli” ucraino e bielorusso, per non parlare dell’utopia di portare i confini a quelli sovietici o perfino zaristi. “L’Ucraina non esiste” dice Putin e il patriarca Kirill gli dà sponda. “Siamo liberi e sovrani, legittimati a scegliere” risposero allora sloveni, croati, bosniaci, kosovari, macedoni e ora l’attore-presidente-eroe Zelensky. L’uso politico della religione ebbe una parte sostanziale nella tragedia bosniaca, usata per dividere e contrapporre le diverse etnie: “Sei stati, cinque nazioni, quattro lingue, tre religioni, due alfabeti, un solo Tito” era il motto che caratterizzava il fragile orgoglio jugoslavo prima della dissoluzione.

Infine, la forza dei nomi, che danno a queste due guerre altri punti in comune, a partire dal nome “Kraj”, radice slava per dire “limite, confine”: la guerra bosniaca iniziò proprio nella Kraijna di Knin, enclave serba in territorio croato; lo stesso nome segna la “marca”, il territorio di confine d’Ucraina: a sud il mare, a ovest i polacchi e, appunto, l’impero degli Asburgo.

Sono le follie di questa violenza a non conoscere, per ora, confini.


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