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Uomini e bestie, una lunga storia di amore e odio

La caccia tra tradizione e amore per la natura

lun 10 ago 2020 12:08 • By: Sergio Zanella

Stefano Ravelli: «Dietro l'abbattimento di ogni capo, ci sono ore di lavoro per favorire la presenza e la diffusione della fauna sul territorio»

Il rapporto tra il cacciatore e il mondo animale suscita da sempre molteplici interpretazioni. C’è chi dietro alla caccia vede solo crudeltà e chi, magari approcciandosi più da vicino a questa pratica, ne riconosce l’importante ruolo d’equilibrio ambientale. Per conoscere da vicino cosa spinga nel 2020 migliaia di persone ad avvicinarsi a questa pratica ancestrale, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, abbiamo intervistato Stefano Ravelli, avvocato di Monclassico che dal 2018 è presidente dell’Associazione dei cacciatori trentini.

Presidente Ravelli, cosa spinge una persona ad avvicinarsi alla caccia?

È una domanda a cui è difficile rispondere, ma che, sicuramente, ha una forte base fatta di tradizioni ed amore verso la natura. So già che dicendo questo farò storcere il naso ad alcuni lettori, ma chi conosce a fondo le regole e la pratica della caccia di certo non si stupirà.

Che legame c’è tra il cacciatore e la fauna selvatica?

Per rispondere a questa domanda parto da lontano. Il rapporto tra uomo e natura, in una civiltà come la nostra, è in continua evoluzione. Una volta pratiche come la caccia o la macellazione degli animali facevano parte della quotidianità delle famiglie trentine, ora invece non è più così. Gran parte dell’umanità è ormai disposta ad accettare l’agricoltura intensiva o l’uccisione quotidiana di milioni di capi per scopi alimentari, tuttavia le stesse persone faticano a comprendere come il cacciatore possa presentarsi sia come predatore sia come protettore dell’ambiente naturale in cui vive. C’è ormai una separazione netta tra la civiltà inurbata e l’animale, ciò dà esito a letture opposte e a volte inconciliabili. Basti pensare alla questione orso: c’è chi è per l’abbattimento totale della specie; c’è chi, al contrario, sostiene che l’uomo non debba più entrare nel bosco perché quello è ormai un territorio destinato all’orso.

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Come al solito la verità sta nel mezzo e credo sia fondamentale leggere questo rapporto con una base tecnico-scientifica e non puramente sentimentale.

Parlando di basi tecnico-scientifiche, queste hanno un ruolo anche nella caccia?

La nostra pratica si poggia unicamente su queste basi. Bisogna capire che dietro all’uccisione di ogni capo ci stanno ore di lavoro per favorirne la presenza e la diffusione nel territorio. Prima di arrivare a premere il grilletto, un buon cacciatore ha investito decine di ore di volontariato fatte di censimenti, pulizia del territorio e manutenzione di aree naturali. L’atto della caccia viene al termine di un lavoro certosino che annualmente viene fatto sul territorio. Se la nostra fauna non fosse in salute, la caccia non esisterebbe.

In che stato di salute versa la fauna trentina?

Il mondo degli ungulati, mi sento di dire, sta vivendo una delle migliori fasi da 100 anni a questa parte. Oggi per noi è normale incontrare un cervo o un capriolo, ma non dobbiamo dimenticarci che fino agli anni ’50 questi animali erano praticamente spariti dalle montagne trentine. Nell’arco di 60-70 anni la popolazione degli ungulati è decuplicata, arrivando a contare 75mila capi. Una fetta di questo successo è merito dei cacciatori. Per i tetraonidi (gallo cedrone e forcello, francolino di monte e pernice bianca, ndr) il discorso è invece più complicato. La proliferazione di arbusti, come mugo e rododendro in alta montagna, sta creando grossi problemi di riproduzione a questi animali, ma anche in questo caso i cacciatori si danno da fare per favorirne lo sviluppo. L’associazione provinciale, che raccoglie 209 riserve e 6000 cacciatori, ha investito nel solo triennio 2017-19 ben 127mila euro di tasca propria per fi nanziare 39 progetti volti a migliorare le condizioni di vita e di riproduzione della fauna trentina. A questa somma si aggiungono i contributi del PSR e i fondi messi a disposizione dalle singole riserve di caccia. Il cacciatore riesce ad avere solo se dona qualcosa alla natura, in termine di passione, tempo e investimenti a tutela del territorio.

Dietro all’atto della caccia c’è quindi pianificazione e impegno?

Quando nel 2018 diventai presidente dell’associazione dissi ai cacciatori, ma anche ai nostri dipendenti (guardiacaccia e tecnici della pianificazione, ndr), che la cosa più importante per noi doveva essere comunicare al meglio ciò che facciamo quotidianamente, al di là della caccia. Credo poi sia importante che tutti i cacciatori continuino ad elevare il loro bagaglio culturale, per comprendere sempre più che la caccia è compatibile con la conservazione di tutte le specie e ha il prezioso compito di mantenere gli equilibri naturali. La caccia deve essere sostenibile e deve seguire metodologie di pianificazione standardizzate e non casuali.

Che rapporto c’è tra il cacciatore e l’orso?

La questione è complessa. Anche qui torno alla necessità di avere numeri precisi e di adottare basi tecnico-scientifiche e non sentimentali. Mettere a rischio la popolazione dell’orso non è consentito, ma prelevare, in casi eccezionali, due o tre orsi problematici su una popolazione di 100 plantigradi permetterebbe di cambiare l’approccio della comunità locale verso questo animale. Credo poi che, a differenza del lupo, i danni che l’orso arreca alla popolazione degli ungulati siano minimi.

E sul lupo cosa pensa?

Il discorso qui è leggermente diverso. Il lupo ha una capacità di riproduzione assai più rapida rispetto a quella dell’orso e non ha alcun nemico naturale. Le predazioni del lupo sono in repentino aumento e non si arresteranno vista la grande disponibilità di prede. Il suo impatto sulla fauna locale è già in fase di analisi. Bisognerà a breve adottare delle strategie chiare, ricordando, tuttavia, che il lupo è tutelato a livello internazionale. 



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