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Dio, i migranti e noi

dom 21 ago 2022 09:08 • By: Renato Pellegrini

Nella Bibbia, storie di emigrazione

È accaduto nel passato e continua ad accadere: la fame e la guerra spingono a mettersi in cammino. Donne e uomini, vecchi e bambini sono costretti ad abbandonare case e terre per un boccone di pane. Se ne parla anche nella Bibbia, nel libro di Rut.

Un breve testo che conserva la memoria dei viaggi di persone invisibili e senza potere. La storia è ambientata in un tempo lontano anche da chi l’ha raccontata, era il «tempo dei giudici», prima cioè che Israele decidesse di avere un re quale garante della giustizia, tempi difficili, di violenza e sopraffazione, tempi in cui non era facile trovare un senso alla propria esistenza. Un uomo, con sua moglie e i suoi due figli, è costretto a lasciare la sua terra.  Quando non c’è cibo, si ha una situazione di ingiustizia che impedisce la condivisione del pane. «La carestia è un segnale socioeconomico di una sterilità più strutturale, di un mondo segnato dalla carestia di cibo, di buone relazioni, di futuro». (Lidia Maggi).

Il libro di Rut si apre con la migrazione a Moab in cerca di cibo e con il successivo viaggio di ritorno a casa. A partire sono donne vedove, senza futuro, chiuse nel loro dolore. Si tratta di Noemi, sposata con Elimelec, e madre di due figli, al tempo in cui partì verso Moab. Il suo è stato un viaggio della speranza, che le fece trovare casa in terra nemica. Ma un Paese che ti accoglie e ti nutre, può ancora essere considerato nemico? Forse è per questo che i due figli di Noemi sposano senza indugio due donne moabite, Orpa e Rut. Durante il lungo soggiorno a Moab, muore Elimelec, il marito di Noemi, e successivamente anche i due figli, Malon e Chuilion.

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Proviamo ora a guardare queste donne, Noemi e Rut, in viaggio. Cerchiamo di guardarle con gli occhi di chi conosce la loro triste storia. Il narratore ha descritto il loro ritorno, perché non le perdessimo di vista. Lo ha fatto perché provassimo per loro simpatia e le vedessimo risollevarsi. Noemi decide di tornare a casa, e mentre dialoga con le nuore il nostro cuore è con lei. Conosciamo da dove viene, sappiamo il suo dolore. Ci vuole coraggio per partire, lasciare il proprio paese in cerca di fortuna; ma quanta forza ci vuole per tornare a casa con la sensazione di aver fallito il proprio progetto migratorio? Era partita povera, con poche cose, torna a casa senza niente, più povera di prima. Ci sono viaggi intrapresi per rispondere ad una chiamata, viaggi per visitare amici e parenti o mete sconosciute.

«Il libro di Rut, ambientato nel periodo estivo, al tempo della mietitura, ci ricorda, con lo stile leggero di una narrazione dai tratti quasi fiabeschi, che i viaggi disperati dei migranti non vanno mai in vacanza. Dietro ogni persona costretta a lasciare la sua terra, c’è una storia, un vissuto che non ha il potere di fare notizia, a meno che qualcuno si fermi ad ascoltarla». Nel libro di Rut Dio non entra in scena direttamente. Il riscatto di queste donne non avviene miracolosamente per mano di Dio. «Eppure, c’è qualcosa di profondamente divino, proprio perché profondamente umano, nel coraggio e nell’amicizia di due donne, come nella solidarietà di una comunità che permette loro di trovare le risorse per risollevarsi. C’è qualcosa di profondamente umano, e dunque divino, nello sguardo empatico che tu, lettrice, lettore puoi accendere su queste vedove in viaggio. Dio agisce anche così, attraverso l’attenzione di uno sguardo donato a chi è destinato a rimanere invisibile. E il male può nascondersi in un semplice atto di distrazione».

Non è un mondo giusto quello che abbiamo costruito. Troppi viaggiano per fuggire alla fame e alle guerre. Non siamo tutti uguali e le nostre differenze sono disuguaglianze. Alcuni sono nati nella parte giusta del mondo, sono i più fortunati. Siamo noi che possiamo vivere serenamente, noi e i nostri figli. Abbiamo una casa, ci sono scuole e ospedali e mezzi di trasporto. Altri vengono da terre desolate, campi di battaglia e conoscono solo la fuga per non soccombere. Fuggono dalle bombe, da chi vorrebbe renderli schiavi, fuggono per non morire troppo presto di stenti. E poi c’è chi è emigrato, ha trovato asilo presso di noi, ha avuto figli e figlie che sono andati a scuola con i nostri figli e figlie, ma anche tra loro non c’è uguaglianza. Loro rimangono sempre stranieri, sempre tragicamente diversi.  «È un mondo chiuso, diviso in gironi, più simile all’inferno che al giardino primordiale. Carestia di solidarietà, fame di giustizia, sete di dignità. È una terra arida, sassosa, incolta, per tanti in mezzo a noi.

Camminare al seguito del figlio di Nazaret, di chi non ha dove posare il capo, significa percorrere le strade scomode dell’esistenza, invece che ricercare viaggi organizzati. Non è un mondo giusto quello che abbiamo ereditato e costruito, ma tu, Dio dei migranti, non stancarti di pungolarci per spingerci a prendercene cura: a dissodare le disparità, a seminare i fiori delle differenze, a bonificare i campi di battaglia per trasformarli in giardini, senza dogane, posti di blocco, solo giardini aperti».                      



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