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Cronache da una montagna che viene giù

dom 18 set 2022 12:09 • By: Giulia Colangeli

Dal Monte Rosa un reportage dal cambiamento climatico

MONTE ROSA. Seduta sulle travi in legno della piazzola d’atterraggio dell’elicottero, osservo.

Sotto di me, a quota 3647 m, sorge la Capanna Gnifetti, baluardo di salvezza per alpinisti, sul massiccio del Monte Rosa dal 1876. Alla mia destra scorgo la distesa di ghiaccio ridotta a una groviera, dai crepacci urla la montagna ferita. Sulla mia sinistra, pietre.
Ascolto.

Lo scrosciare di una cascata che non dovrebbe esistere, nata dallo scioglimento del ghiaccio di superficie; il suono è continuo, l’eco si percepisce appena. Segue il cozzare sordo dei massi che rotolano giù, discontinue note su un pentagramma ormai arido.
Un seracco, dopo tanto resistere, si stacca. E con esso il suo vicino, o un lontano parente.
Il principio di valanga si arresta immediatamente in uno dei tagli nel ghiaccio, sferzate di questo caldo anomalo che fa bollire le città.

Io, che mal sopporto le alte temperature, credevo che avrei trascorso un’estate tra i ghiacci, ma i ventisette, ventotto gradi sono arrivati anche qui. Se il vento cala e le nuvole scoprono il sole, non c’è scampo. A questa quota non me l’aspettavo.

Manca l’acqua. Alcuni rifugi hanno chiuso in anticipo – chi sul finire dell’estate, chi troppo, troppo presto, come il Gonella sul Bianco che si è dovuto arrendere dopo la prima metà di luglio – mentre altri sono riusciti a limitare lo spreco per quanto possibile: niente docce per nessuno, l’acqua va destinata alla cucina e ai bagni, niente carichi e scarichi superflui.

Noi, penso io, tutto sommato ce la caviamo. Abbiamo sofferto delle carenze in giorni particolarmente afosi, ma non possiamo lamentarci.

Da dentro la capanna sembrerebbe quasi una stagione normale – se di normale c’è mai qualcosa, oltre una certa quota –: i numeri non calano oltre una minima soglia, accogliamo ospiti ogni giorno. Ma è sufficiente guardare fuori dalla finestra, e la favola cede il passo all’incubo. Non esistono parole più adatte per descrivere la situazione, più sincere, più spontanee di: la montagna sta venendo giù.

Annuso l’aria.

È fresca, quando si alza il vento, ma non gela le narici. Non mi è sembrata fredda neanche quando, sporadicamente, sono caduti pochi e disperati fiocchi di neve: a luglio divenivano acqua prima di toccare il suolo. Inodore e incolore, quest’atmosfera non allarma.

Al tatto, però, il legno è caldo. Io non resisto più e tolgo la t-shirt, rimango in canotta, a bollire senza nubi e senza vento. Sono quasi le cinque del pomeriggio, e realizzo che da più di due settimane la temperatura non scende sotto i quindici gradi.

Sulla cima del monte Bianco si sono registrati dieci gradi positivi, giungono notizie altrettanto atroci dal campo 3 sul Nanga Parbat (dove risulterebbe che, a quasi settemila metri di altitudine, sia stato percepito lo zero termico).

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E mi sembra, per un momento, di riuscire a estraniarmi dal mio quadretto, di vedere oltre la Piramide Vincent che veglia e accoglie gente ogni giorno, qui sul Rosa, oltre i Lyskamm, oltre le punte, le creste, oltre i bulloni e i tiranti che tengono in piedi la capanna Margherita, a 4556 m.

Vedo chiaramente che abbiamo superato il punto di non ritorno, perché se la condizione climatica è una parabola discendente (1) – con i suoi picchi e le sue depressioni –, non riavremo più una stabilità degna del suo nome.

Avremo, forse, inverni molto nevosi e saltuarie estati ventilate, ma la tendenza continuerà a sfornare stagioni estreme, freddi innaturali e caldi desertici. O precipitazioni di potenza irrazionale, come nel caso del Pakistan (2) ora sommerso.

Un tempo si poteva giungere alla capanna Gnifetti senza l’uso dei ramponi, per la gran quantità di neve che si accumulava fin sulla porta del rifugio. Oggi si rischia di scivolare giù, tra sassi e pietre, perché metà del ghiacciaio del Garstelet se l’è divorato quel muto, ma progressivo, grado in più che sta distruggendo gli equilibri. Tra la lingua di ghiaccio e il rifugio ci sono oggi più di cinque metri di scale, tutti tentativi di contrastare l’irraggiungibilità, quelli che ci riescono meglio... ma solo a cose fatte, quando le conseguenze alle nostre azioni sono già fuori dal nostro controllo.

Di neve, quassù, neanche l’ombra: solo ghiaccio residuale e detriti, in ogni caso.

Quest’estate è stata determinante anche per l’opinione pubblica che, dopo due anni indubbiamente già di per sé impegnativi, decide di prestare attenzione a un’ulteriore emergenza, come quella climatica, grave e senza scadenza.

Qui, in alta quota, ho assistito al mostrarsi tra giugno e luglio delle condizioni che normalmente si hanno a fine stagione: con assenza di precipitazioni e di rigelo durante la notte, nulla di nuovo è andato creandosi. Sul finire dell’estate qualche nevicata ha bilanciato i rischi, mettendo un cerotto laddove servirebbero punti di sutura.

E noi, popolo che sale dalle valli, dalla piana, dal mare, analfabeti montani, prendiamo atto delle conseguenze delle nostre azioni solo quando ne notiamo gli effetti sugli ecosistemi che abbiamo molto a cuore; non accettiamo, però, la responsabilità che inevitabilmente ricade su di noi per tutto questo.

Dall’auto che utilizziamo anche per poche centinaia di metri – quotidianamente – alla produzione, l’uso, il consumo smodato di plastiche e imballaggi, non facendo altro che perpetrare (se non aumentarne) la richiesta (3).
Così come ignoriamo – consapevolmente o meno – l’impatto benefico che avrebbe una dieta a base vegetale sull’ambiente: non è un mistero che il settore agricolo consumi meno acqua di quella impiegata per la produzione di carne (sapevi che “[…] Un terzo dell’acqua consumata è destinato all’allevamento dei bovini da carne e un quinto a quello dei bovini da latte: ma la quasi totalità dell’acqua, il 98%, serve a produrre mangimi, mentre appena l’1,1% serve a dar da bere agli animali” (4)?.

Non ci rendiamo conto di ciò che causiamo semplicemente esistendo, così come non calcoliamo i rischi che affrontiamo salendo su una montagna che piange, teniamo in tasca il telefono per chiamare il soccorso alpino quasi per abitudine, ci lamentiamo delle pessime condizioni dei ghiacciai e poi pretendiamo di fare la doccia a quasi quattromila metri di altitudine. Noleggiamo, se possiamo concedercelo, un elicottero o un jet privato per ostentare il nostro lusso (5), producendo una quantità di anidride carbonica – e di inquinamento acustico – raccapricciante.

Superficiali. Parassiti, siamo, per questa Terra sofferente.

Il pianeta non ha bisogno di noi, noi ne abbiamo di Lei. E necessitiamo di una profonda rieducazione – umana e, soprattutto, ambientale –: perché nel momento in cui si inizia a vivere la natura con consapevolezza, a farne parte in modo attivo, a crescere con i piedi sull’erba e un albero oltre l’uscio, non l’asettico asfalto, non il grattacielo senza radici, diviene impossibile ignorare il crollo della propria Casa qui, sulle nostre teste, sotto i nostri piedi.

Abbiamo bisogno di essere al centro della faccenda, perché solo dal centro l’uomo riesce, nella sua presunzione, a osservare ciò che lo circonda. E, se lo riguarda, a prendersene cura.

Della tragedia sulla Marmolada ha fatto scalpore, tristemente, il numero di vittime, non la motivazione. Ma senza un’educazione alla montagna rimarremo ignari, e scopriremo presto che una disgrazia come questa sarà solo la prima di molte altre.

Finché non si scioglierà, o si seccherà, anche il suolo sul quale riposiamo la notte.

 

1 Se necessarie ulteriori delucidazioni, consultare Italian Climate Network (italiaclima.org) o qualsiasi organizzazione che si occupi di divulgazione in ambito climatico.

2 Un terzo del Pakistan è sott’acqua, rivista Internazionale 2 settembre 2022, n°1476.

3 “[…] Per ottenere un chilogrammo di PET occorrono una quantità di petrolio grezzo pari a 1,9 chilogrammi e quasi 18 litri d’acqua” tratto da Quanta energia spendiamo per la produzione di plastica?, liberidallaplastica.it, 13 marzo 2020.

4 Quanta acqua ci vuole per produrre ciò che mangiamo?, Chiara Guzzonato su Focus.it, 5 giugno 2021.

5 Abbiamo bisogno di nuovi idoli, Pietro Lacasella su Il Dolomiti, 3 settembre 2022



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