Skin ADV

Come cambia una lingua in 25 anni

gio 09 lug 2020 19:07 • By: Laura Abram

Madri e figli a confronto per indagare le differenze generazionali sull’uso del noneso

25 anni. Cosa accade in venticinque anni? Potremmo dire che venticinque anni sono una generazione e in una generazione cambiano molte cose, nascono nuove tecnologie, terminano epoche, evolvono le lingue. E allora anche il dialetto di oggi sarà mutato rispetto a quello di 25 anni fa? Senza dubbio; le lingue vive sono in perenne evoluzione e anche in noneso è cresciuto, in un constante equilibrio di acquisizioni e perdite.

Per indagare al meglio questa differenza generazionale, ho pensato di realizzare delle interviste doppie, a madri e figli, con lo scopo di capire se e quali differenze lessicali emergono a distanza di 20/30 anni. Ho scelto nello specifico madri, quindi solo donne, e figli o figlie in misura più o meno uguale tra maschi e femmine perché sono partita dal presupposto che sia la mamma la principale trasmettitrice dei modelli linguistici nella prima infanzia, colei che passa generalmente più tempo con i bambini (per lo meno 25 anni fa) e dalla quale si acquisisce appunto la lingua madre. Mi interessava capire se, pur crescendo a contatto con il modello linguistico e il bagaglio lessicale quotidiano della madre, il dialetto parlato dai figli, nati una generazione dopo, risultasse diverso.

Autoroen Aprile

Mi sono resa conto, strada facendo, che all’interno dei risultati avrei dovuto distinguere tra conoscenza e utilizzo del dialetto da parte dei miei intervistati. Per quanto riguarda la conoscenza, le madri hanno dimostrato una padronanza molto vasta e approfondita del dialetto, che spaziava da parole della vita quotidiana a termini ormai quasi in disuso, ma legati alla loro infanzia (ad esempio seu sego, sdramaz materasso, faitàr strutto). Diversamente dai figli, che hanno dimostrato una conoscenza meno ampia e radicata del dialetto, dovuta probabilmente alla loro appartenenza generazionale, che li ha visti nascere in una realtà in cui determinati termini e oggetti non sono più utilizzati.

Per quanto riguarda, invece, l’utilizzo delle parole dialettali conosciute, non ho notato una differenza così evidente tra le due generazioni. I figli, in media, pare che utilizzino più frequentemente delle madri alcuni termini dialettali comuni, come rava zalda carota, canapè divano, mantin tovagliolo, ueuna soffitta. Vi è quindi una certa omologia tra la quantità di termini dialettali conosciuti dai giovani e la quantità di termini effettivamente utilizzati.

Torniamo allora alla nostra domanda iniziale: cosa può accadere al noneso in 25 anni? Da questa piccola ricerca si può dedurre che nell’arco di una generazione il nostro dialetto sia sicuramente mutato: le persone di cinquant’anni conoscono e ricordano termini che i ragazzi di venticinque anni faticano a decifrare o addirittura non hanno mai sentito. Si perdono pian piano parole come òbit funerale, cucùmerlo cetriolo, sopresàr stirare. Ma un elemento ben più importante non è mutato: la voglia di parlare il dialetto, la spontaneità nell’utilizzo del registro dialettale nei contesti quotidiani. Può sembrare che il dialetto si sia «italianizzato» o che abbia perso prestigio; in realtà, probabilmente, è solo cresciuto, ha adottato e integrato parole nuove per continuare a vivere nel ventunesimo secolo e chi l’ha imparato da piccolo e l’ha sempre sentito da mamma, papà, nonni e amici, lo parla ancora e continuerà a farlo.   



Riproduzione riservata ©

indietro