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Avvento: imparare a credere nella notte

dom 04 dic 2022 09:12 • By: Renato Pellegrini

Ogni uomo e ogni donna possono essere testimoni di questa luce

Nel Vangelo della prima domenica di Avvento, che la liturgia propone, risuona l’invito: «Vegliate!», Vegliate è una di quelle parole che hanno la capacità di dar vita a un mondo, disegnare orizzonti e rievocare paure e speranze.

Noi sentiamo questa parola nel momento in cui la natura si addormenta per riposare, dopo aver portato i suoi frutti, quando le giornate vedono diminuire la luce e crescere la notte. È negli ultimi giorni di novembre o nei primi di dicembre, quando la luce è poca e più desiderata, perché il buio sembra vincere su ogni cosa, che la Chiesa propone ai credenti nel Dio di Gesù Cristo di vegliare, di non lasciarsi vincere dal sonno, di saper guardare avanti. Perché verrà il giorno, il Natale, nel quale il sole e la sua luce torneranno a vincere le tenebre.

La nostra vita umana e spirituale, con i suoi tempi e le sue stagioni, con il suo ritmo quotidiano così ripetitivo e uniforme, forma un tutt’uno con il ritmo della natura; ritmo dello spirito e ritmo della terra sono una cosa sola. Perché la natura non è solo attorno a noi, ma è anche dentro di noi. In ogni cosa c’è un’attesa, ogni essere contiene in sé un avvenire e ogni vivente attende una venuta. In tutto questo si iscrive l’attesa dei cristiani che attendono Gesù, l’Emanuele, il Dio-con-noi, facendosi voce di ogni creatura. L’avvento sembra indicare che la fede nasce nella notte. E i cristiani, infatti, cominciano a credere nella notte.

Gesù, secondo la tradizione, nasce nel buio e nel freddo di una notte, l’invocazione di tanti nel Vangelo, immersi nel buio della cecità, è: «Signore, fa’ che io veda». Non perché il mondo nel quale vivono è solo tenebra, solo male e solo peccato.

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Il Signore ha collocato anche i suoi seguaci nella notte e non in pieno giorno. E dunque non l’hanno scelta loro la difficile condizione di essere credenti nella notte. Il Signore, però, non li ha abbandonati a vagare senza una meta. Ha dato loro una lampada: «La tua parola è lampada ai miei passi» (Sal 119,105).

Ha consegnato a chi si fida di Lui solo l’unica cosa necessaria a chi sta nel buio: una fiamma che non illumina tutto, non permette di vedere tutto, ma solo quanto basta per muovere i passi. Ecco cos’è la fede dei cristiani: una fiammella che non permette di vedere come in pieno giorno, non possiede la chiarezza su tutto e dunque non dà certezze incrollabili, non offre verità assolute da imporre, non permette l’arroganza di chi presume di avere tutta la verità. I credenti nella notte cercano la verità con la stessa fatica con la quale nel buio si cerca il cammino; a tentoni, spesso sbagliando e andando fuori strada.

È una luce fragile come la Parola da cui nasce. Il Vangelo non vuole essere una norma morale infallibile, è un invito a cercare insieme, a sperimentare la presenza di un Dio che non è solo il Dio dei cristiani, ma di tutti. La Parola illumina il volto di ogni donna e di ogni uomo e su quei volti si può cogliere la bellezza ma anche la fragilità dell’esistenza. Quella lampada è una luce che resiste alle intemperie, ma non si sostituisce mai al sole. E piuttosto una stella a cui guardare, che dice che le tenebre possono essere vinte. «La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta» (Gv 1, 5).

Ogni uomo può essere testimone di questa luce. È bene convincersi che proprio la notte può essere la misura della fede! È una convinzione che aiuta a non cedere alla tentazione di volere vedere e sapere tutto. Quando questo avviene non si vive più nello spazio della fede, ma delle certezze. E chi vive di certezze non può essere credente. Credere nella notte, essere consapevoli che la notte è il tempo del silenzio, delle voci basse, dei sussurri, del mormorìo sommesso. Nella notte non si grida, non si alza il tono, non si fa udire in piazza la propria voce. Il Vangelo non è l’ideologia di cui fare propaganda, non è un prodotto da svendere sul mercato e per questo non va né gridato, né sbandierato.

Vangelo significa buona notizia, e una notizia buona si addice più all’intimità e al silenzio della notte che alla piazza affollata di gente nell’ora di mezzogiorno. Vegliare in questo Avvento sarà, dunque, per ogni cristiano saper raccontare il Vangelo senza infrangere il silenzio della notte.

Cantare Rorate coeli desuper (piovete cieli dall'alto) significa gridare al cielo invocando da lui ciò che non ci possiamo dare da noi quaggiù. Significa riconoscere che ogni essere umano è abitato da un desiderio così profondo che la terra non può saziare. Rorate coeli desuper lo canta solo chi ha l'umiltà di ammettere che non solo non ci si può dare tutto, ma che l'essenziale che ci fa vivere lo riceviamo, certi che l'unica salvezza è la vita di un altro, di un Altro.

Sappiamo che il passato non ce l'ha data, comprendiamo che il presente ne è del tutto incapace, allora la attendiamo nel futuro e, invocandolo, la attraiamo a noi. «Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi molto prima che accada» (R. M. Rilke, Léttére a un giovane poeta, 12 agosto 1904).



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