Skin ADV

Auschwitz, la ribellione del fabbro Jan Liwacz

ven 27 gen 2023 09:01 • By: Giada Gasperetti

Nella scritta posta sul cancello la storia di un piccolo gesto di sfida

In bilico sopra il cancello all’ingresso di Auschwitz c’è ancora oggi la famosa insegna in ferro battuto Arbeit Macht Frei, Il lavoro rende liberi. ‘Le tre parole della derisione sulla porta della schiavitù’, scriveva Primo Levi nel suo libro La tregua, sintetizzando in modo beffardo le menzogne dei campi di concentramento. Chi varcava quel cancello infatti, come la porta dell’inferno di Dante, non aveva quasi nessuna possibilità di uscirne vivo, nemmeno se avesse lavorato senza sosta e senza risparmiarsi.

Ma da dove spuntava fuori quella frase così ingannevole?

Probabilmente era semplicemente il titolo di un romanzo di un autore tedesco, Lorenz Diefenbach, datato 1873, oppure l’estratto di un passo del vangelo di San Giovanni.

L’insegna venne forgiata per la prima volta nel 1933 nel campo di concentramento di Dachau, per poi diventare simbolo anche dell’ingresso di Auschwitz nel maggio del 1940 per ordine del primo comandante del lager Rudolf Höss, che ne dispose la realizzazione in metallo. Un ufficiale tedesco, Kurt Müller, progettò la scritta che avrebbe dovuto essere poi forgiata in ferro battuto e ne chiese l’immediata esecuzione.

Venne incaricato un prigioniero esperto nei lavori in ferro, che per i nazisti era solo un dissidente politico polacco.

Autoroen Aprile

Si chiamava Jan Liwacz.

Non era ebreo. Anzi, a dirla tutta non era nemmeno credente. Non era di certo un criminale né, tantomeno, un ladro o un nemico del reich: a lui la politica non interessava minimamente. Il suo unico scopo nella vita era la sopravvivenza garantita da una piccola e umile bottega che però, per un drammatico gioco del destino, si trovava proprio nel ghetto di Varsavia. Per questo motivo (e per nient’altro) era stato arrestato dalle SS nel maggio del 1943 durante la repressione della rivolta del ghetto e senza conoscere nemmeno il motivo della sua cattura. Era stato ingiustamente portato ad Auschwitz.

Il suo lavoro di esperto fabbro gli consentì di dirigere l’officina interna al campo, dove si era occupato solo di lampioni, inferriate, barre e cancelli, finché gli giunse l’ordine tempestivo dall’ufficiale Kurt Müller di eseguire l’insegna in ferro battuto.

Il fabbro obbedì. Si mise immediatamente all’opera ma, nel momento di saldare le lettere per comporre la parola Arbeit, Liwacz fece un piccolo gesto di rivolta, ribaltando la lettera ‘B’ in modo che il cerchio piccolo risultasse in basso rispetto a quello grande anziché in alto, come invece la grafica impone.

Un simbolo di libertà supportato solo dalle armi pacifiche della grafica dell’alfabeto delle lettere.

I nazisti non si accorsero mai di quella ‘B’ girata al contrario, di quel grido di libertà e tacita rivolta personale. Un urlo di dolore, la rivendicazione di una dignità, una rivolta simbolica contro la persecuzione.

Per alcuni storici non è come si pensa: non è una strana ‘B’ capovolta, ma una nuova forma di caratteri geometrici sperimentati in quel periodo. Il mondo intero invece, con la legge del cuore, ha voluto vedere in quella particolare ‘B’ capovolta la sfida del popolo polacco, la rivolta simbolica dei perseguitati contro le barbarie naziste.

Quando nel 1945 avvenne la liberazione Liwacz era salvo, ma non dimenticò la sua opera di ferro battuto e ne fece richiesta pretendendo che gli fosse restituita. La scritta però era già stata prelevata e caricata da un soldato sovietico dell’armata rossa su un treno destinato all’estero. Venne barattata in cambio di una buona bottiglia di vodka da un ex prigioniero che, furbamente, aveva intuito il valore storico che avrebbe potuto avere quell’insegna un giorno. La nascose così per anni, finché poi non la donò al museo di Auschwitz dove era giusto che rimanesse.

Che fine fece il fabbro? Lui fortunatamente tornò al suo lavoro nel suo villaggio, dove visse serenamente fino a 82 anni.

 



Riproduzione riservata ©

indietro