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Le otto montagne

dom 29 gen 2023 12:01 • By: Giulia Colangeli

Storia di due solitudini nella cornice ideale di un ambiente reale

L’acclamato premio Strega 2017, “Le otto montagne” di Paolo Cognetti, è finalmente diventato un film. L’autore, ex studente di matematica, poi documentarista, scrittore e viaggiatore, ha creato il capolavoro. Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch gli hanno reso giustizia con l’adattamento cinematografico, approdato nelle sale a dicembre 2022, di produzione italo-belga-francese.

Ne parlano tutti, è il fenomeno del momento (forse solo Avatar può competere al botteghino): interessante esito per una storia pluripremiata, ma raccontata in un libro ormai uscito quasi sette anni fa. Simile a quello di molti capolavori dell’arte visiva: per la loro grandezza, hanno portato valore e credito anche al capolavoro scritto, e non il contrario.

Questo è un giudizio oggettivo: “Le otto montagne” (film) è stato un immediato successo perché opera di gran pregio visivo, artistico, poetico.

La trama non si discosta da quella del romanzo: due bambini, Pietro e Bruno, due infanzie a confronto, due giovani che si trasformano rapidamente in uomini, lontani l’uno dall’altro, ma legati da un’amicizia che supera lo spazio e non fa conto dei diversi percorsi intrapresi.

Pietro, cittadino milanese in vacanza a Grana, conosce Bruno, originario del minuscolo paesino valdostano. Le differenze abissali tra i due si incontrano a metà strada, un tortuoso sentiero lungo il quale le estati di Pietro non hanno significato senza il suo amico, senza quel mondo ideale che può essere la montagna solo nella mente di un cittadino, un piccolo universo che Bruno custodisce, ignaro del suo privilegio, per nascita, e del quale Pietro aspira a far parte.

La città e la montagna, un’amicizia incrollabile tra due anime affini con caratteri profondamente diversi, i rapporti con le rispettive famiglie d’origine, con l’amore e le responsabilità di un’età adulta che si palesa ostile e inaspettatamente disordinata: è un romanzo di formazione, se ne si vuol leggere il primo strato.

Autoroen Aprile

È una serenata senza tempo a un ambiente e una comunità che lo stesso Cognetti vive come paradiso (non più) a lui proibito, come rifugio entro i confini del quale ha trovato il suo posto nel mondo o come tribù di cui ha conquistato la fiducia, fino a farne parte. Ora l’autore vive e scrive nella sua baita, durante la stagione bella dell’anno.

O ancora, semplicemente, è uno specchio: vi si riflette l’eterna dualità tra città e montagna, due luoghi reali che portano un carico – emotivo, linguistico, visuale –puramente ideale. Il cittadino si innamora della montagna al primo sguardo, beandosi del suo silenzio e della sua colorata stagionalità, detestando la città come si odia il nucleo propulsore di ogni male della propria vita. Immagina una vita diversa, in alta quota e a contatto con quella che facilmente chiama “natura”, un nome astratto per un’astratta idea di ciò che significhi vivere così fuori dalle rotte comuni.

Ciò che ha attirato spettatori al cinema, anche tra coloro i quali non conoscevano il libro da cui l’adattamento è stato tratto, è la facilità, la comodità di una poltrona posta davanti a uno schermo rispetto alla più lunga gestazione di una lenta lettura - come della conquista di una cima - immersi come siamo in una quotidianità che preme per divenire sempre più rapida e aggressiva, autoconclusiva. Anche a certe, meno pratiche e confortevoli, quote.

Rimane immortale, però, l’attrazione verso “il selvatico”, da parte del cittadino medio che cerca sempre di più la sua montagna, per le ferie o la vita.

L’afflusso di persone in queste nostre valli, dalle grandi città e da lontano, è in costante aumento. Non più ci si muove per una stagione di vacanza – la casa in affitto o di proprietà è un bene di lusso per pochi – ma si creano nuove radici, dal punto di vista lavorativo e non solo: in molti scelgono di trasferirsi e cambiare vita, ricominciare la propria daccapo.

La montagna, concetto astratto nella mente di chi non la conosce, si fa improvvisamente realtà concreta: i pascoli e i laghi alpini visti nei film si mescolano al freddo dell’inverno, a tradizioni in via d’estinzione.

Nel romanzo di Cognetti portato sul grande schermo c’è tutto questo; è una riflessione sull’animo umano, in perenne conflitto tra comodità moderna ed essenzialità tradizionale, tra la percezione della città come una belva fagocitante – nonostante le “opportunità che offre”, ritornello frequente nelle conversazioni sul tema – e la visione idilliaca della montagna, una liberazione totale da un sistema che opprime e disunisce. Un sistema che alimentiamo quotidianamente, però, pur detestandolo.

Come bilanciare i due poli? Può esistere un compromesso non conflittuale tra aspetti così radicalmente opposti?

È l’incontro tra due solitudini, quelle di Pietro e Bruno, rispettosi della verità dell’altro, propensi all’ascolto ma eternamente divisi per impasse culturale, progetti e vedute, priorità non comunicanti.

Dopotutto, due semi diversi non possono che generare due piante diverse. Entrambe fiorenti, maestose magari, capaci di convivere e dividersi equamente il terreno, ma mai di fondersi completamente.



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