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Una comunità impoverita del suo futuro

dom 16 ago 2020 07:08 • By: Renato Pellegrini

I Francescani lasciano Cles: una riflessione

Il convento di Cles in un'immagine d'annata

Dopo Cavalese anche da Cles i frati francescani se ne vanno. Il convento chiude, ma resterà operativa la comunità di accoglienza: «I fiori del convento», ideata da p. Cesare Francescotti, p. Tiziano Donini e p. Modesto Comina nel 1984.

La motivazione di questa ulteriore chiusura, che vede assottigliarsi moltissimo gli ordini religiosi maschili e quasi scomparire quelli femminili in Diocesi di Trento, è dovuta alla mancanza di vocazioni e alla riorganizzazione della presenza dei francescani nel Nord Italia.

Dal 2016, infatti, non esiste più la «provincia trentina dei francescani», ma i frati di tutta l’Italia settentrionale fanno parte di un’unica grande provincia, che ha la curia a Milano. Lo stesso è accaduto ai cappuccini, che si sono riuniti al Veneto (e Friuli Venezia Giulia) spostando il centro direzionale a Mestre.

Il convento di Cles arrivò in Val di Non durante la peste del 1630. A fine agosto, quando un’altra epidemia non è ancora finita, i francescani saluteranno il convento nel quale sono stati presenti ininterrottamente per 389 anni.

Spiace questa chiusura di un altro convento, segno di un impoverimento della comunità cristiana delle valli del Noce, ma anche di tutto il Trentino, segno di un impoverimento anche del suo futuro, che sarà più precario e incerto di quanto appaia fin d’ora. Viene meno definitivamente un luogo di accoglienza, di ascolto, un punto di riferimento riconoscibile per tanti credenti dei nostri paesi. Con dispiacere, ma anche con realismo, mi pare di assistere alla ritirata che un generale organizza perché senza truppe. Non sarebbe dunque il caso di ripensare a una riorganizzazione di tutta la vita cristiana, «affidandosi a una comunità “tutta ministeriale”, fatta di preti, religiosi e laici ugualmente interessati a mantenere vive le tracce dell’evangelizzazione cristiana nei nostri paesi»? Scriveva così don Marcello Farina quando fu chiuso, primo di una serie, il convento di Rovereto.

Le parrocchie oggi stanno portando avanti una pastorale di conservazione, che, celebrando messe e amministrando sacramenti, credono di salvare il salvabile. Ma così facendo si mortificano le poche e timide richieste di cambiamento, di percorsi personali e alternativi e di sperimentazione condivisa. I conventi anche oggi potrebbero davvero avere questa funzione di sostenere l’esigenza, sempre più diffusa da parte di credenti e cercatori di Dio, di percorsi individuali, di avere risposte che non siano quelle, ripetitive, del «si è sempre fatto così».

C’è una domanda, un po’ retorica se si vuole, che potrebbe suonare così: battere in ritirata o resistere? Come resistere? Rinvigorire la speranza, la progettualità, la «capacità di futuro», o sopravvivere tirando i remi in barca e accontentandosi di quello che gli eventi portano con sè? In questo secondo caso, prevedibilmente, non arriveremo a null’altro che a comunità-cricca (per dirla con un teologo tedesco) sempre più piccole e ristrette, che si occuperanno quasi solo di se stesse, riuscendo a stendo a irradiare verso l’esterno qualcosa della gioia della fede.

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Assomiglieranno a una stufa capace di riscaldare solo se stessa. Forse è importante cominciare a pensare che i tanti battezzati, lontani dalla chiesa e dalle sue liturgie sono in realtà un grande campo di simpatizzanti, che desiderano che proprio la chiesa con i valori che essa rappresenta, continui ad esistere nella nostra società. Forse desiderano anche poter ricorrere ad essa. Non sono, però, in nessun modo disposti a lasciarsi trasformare in cristiani attivi, cioè in cristiani che pregano, frequentano regolarmente l’eucaristia e i sacramenti, la catechesi….

Noi dovremmo a questo punto relativizzare i nostri punti di vista, mettendoci seriamente nella loro prospettiva, per noi sicuramente molto deludente; ma sarà l’unico modo possibile per non perdere definitivamente il contatto pastorale con la gente della nostra cultura. Se chiudono i conventi, se le comunità religiose che restano sono sempre più ristrette e senza quasi più giovani, sarà ancora possibile individuare e costruire percorsi personali e comunitari, attenti alle richieste del territorio e in grado di dare risposte concrete alla domanda di spiritualità presente in molte persone?

Padre Angelo Vender, del convento di Terzolas, ha avuto a suo tempo la fortunata intuizione di una scuola di musica alla quale potessero affluire bambini, giovani e famiglie. Un modo intelligente per accogliere, dare spazio al carisma di ciascuno e arare il terreno nel quale seminare la Parola del Vangelo. Rimane un esempio luminoso di attenzione al luogo e al tempo in cui sperimentare in modo davvero vitale la presenza di un convento.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       



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