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SOS Architettura

Dall’Eneide alla guerra rustica

lun 19 lug 2021 14:07 • By: Alberto Mosca

Un giro a Palazzo Betta, gioiello di Revò da valorizzare

I versi immortali dell’Eneide di Virgilio incisi sull’architrave di una finestra. L’avreste mai detto? Capita a Revò, nel complesso edilizio di palazzo Betta, luogo in cui si intrecciano storie di assessori delle valli e rivolte, di vescovi e soldati protagonisti sui campi di battaglia d’Europa. Un luogo di storia e arte che merita una piena valorizzazione.

Palazzo Betta, oggi Rossi, è noto anche come il “palazzo del vescovo”: nel corso del XV secolo, fu sede “minore” dell’assessorato delle valli. In essa si insediò a partire dal 1517 il nobile originario di Arco Bonifacio Betta, assessore delle valli di Non e di Sole per conto del principe vescovo Bernardo Cles. Personaggio controverso Bonifacio Betta, protagonista della guerra rustica del 1525, prima allontanato e poi reintegrato nelle sue funzioni. Dai suoi figli presero avvio le linee dinastiche di Revò e di Castel Malgolo. Suo fratello Giovanni fu vescovo di Trieste tra il 1560 e il 1565.

Da subito alcuni particolari rendono questo palazzotto suggestivo al visitatore, tanto poterlo considerare un valido esempio di diffusione della cultura rinascimentale in località decentrate: a partire dal bel portale in pietra che reca incisa in chiave d’arco il motto latino “RESPICE FINEM”. Una frase che potremmo rendere in italiano con “guarda allo scopo” e che rappresenta la parte conclusiva del proverbio latino “Quidquid agis, prudenter agas et respice finem”, “qualunque cosa fai, agisci con prudenza e guarda allo scopo”. Ma anche un invito a valutare il proprio operato solo dopo la conclusione. Si tratta di un motto estremamente diffuso nella cultura rinascimentale cinquecentesca. Oltrepassato il portale, la facciata mostra un grande stemma, assai consunto, sovrastante una meridiana. L’arma appartiene al principe vescovo tridentino Cristoforo Madruzzo e la sua realizzazione va collocata tra il 1542 e il 1578; lo stemma Madruzzo è associato a quelli dei principati vescovili di Trento e Bressanone. Completano il quadro numerose fiamme nel campo. In alto, appare ancora un cartiglio su cui compaiono, pressoché invisibili, i resti di un secondo “RESPICE FINEM”. Sotto il grande stemma vescovile appare un altro stemma ormai illeggibile. Potrebbe trattarsi dello stemma dell’assessore delle valli che rimase in carica tra il 1530, quando vi fu la “cacciata” di Bonifacio. Ancora più sotto infatti appare la meridiana recante lo stemma della famiglia Betta; ad essa se ne aggiunge una seconda sul lato adiacente del palazzo, risalente ai decenni centrali del Cinquecento e che mostra notevoli somiglianze con quella ancora oggi visibile sulla casa del dazio di Vermiglio, in Val di Sole.

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In particolare, la meridiana presente sul lato meridionale del palazzo mostra, oltre a motivi geometrici e floreali, una fenice. Ma un giro tra gli innumerevoli passaggi aperti nel complesso edificio di casa Betta permette di trovare numerose, talvolta sorprendenti tracce di storia. Appena oltrepassato il portale d’ingresso, alcuni archi tamponati mostrano l’esistenza in passato di un ampio porticato; al termine di esso si sale lungo una ripida scalinata e si accede ad un piccolo ambiente voltato a vela decorato a motivi floreali e con due iscrizioni ormai di difficile interpretazione, sia per il degrado che per alcune vistose crepe nella struttura. La prima iscrizione si trova all’interno dell’arco di ingresso al piccolo androne: vi si possono leggere, incorniciate da un cartiglio sbiaditissimo, le parole “CHI∙SI∙DILETTA [IN?] TERRA/NELA∙FORTVN∙OL∙MAR∙GLI∙PVO∙FAR∙GVERRA”. Sotto, le cifre 16 sembrano potere essere la prima parte di una data cui tuttavia non si trova corrispondenza dall’altra parte dell’arco. Questo motto è separato da un tratto di sanguigna che taglia al centro l’arco; esso viene diviso idealmente in tre parti e al centro si vede iniziare un motto che dovrebbe essere il naturale completamento del precedente e che attacca con le parole “CHI∙NEL […]”. Allo stesso modo, nel terzo a destra si notano altri caratteri, del tutto incomprensibili, che dovrebbero dare la morale dei tre motti. Il grave danneggiamento degli strati non permette di andare oltre.

Similmente, sul muro opposto all’ingresso si leggono altri frammenti, scritti con il medesimo stile dei precedenti: “[…] CHE […]ATT […] VA PIU IN SV / A MAGGIOR SALTO” e ancora “CHI […] / […] TE VIVE”. Decisamente troppi vuoti impediscono una comprensione migliore delle iscrizioni, cui si accompagnano resti di decorazione. Sulla destra, l’ingresso ai piani del palazzo è contrassegnato da un altro “RESPICE FINEM”, il terzo di questo palazzo, scolpito sullo stipite.

Salendo la scalinata si entra in un interessante ambiente, una stanza rettangolare voltata a crociera caratterizzata da una grande cornice in stucco, di forma rettangolare quadrilobata, all’interno della quale probabilmente esisteva una raffigurazione oggi del tutto scomparsa. Tornando sui nostri passi e usciti dal cortile, proseguiamo lungo l’edificio, notando le semplici decorazioni floreali che decorano le finestre, una scritta con il millesimo 1887 e due possenti portali; infine, un arco tamponato. Fermiamoci ora davanti ad un portale in pietra bianca sovrastato da una immagine di stile settecentesco: si tratta della Madonna dell’Aiuto, assai consunta. Oltrepassando il piccolo portale una scala porta ad un altro ambiente caratterizzato da belle volte a vela; ma noi scendiamo lungo le ripide scale e ci addentriamo tra i volumi ormai caoticamente incastrati del palazzo, tra strutture originali e aggiunte successive.

Da subito si notano le possenti finestre rettangolari e alcune inferriate.

Una di queste in particolare deve attirare da subito la nostra attenzione. Sulla sinistra, come anticipato, una finestra che guarda sulla cantina reca scolpite sull’architrave superiore l’anno 1512, data probabile di lavori di rinnovamento dell’edificio e il verso 505 del primo libro dell’Eneide: “1512 / TVM FORIB9 DIVÆ, MeDIA TeSTVDINe∙TeMPlI [saepta armis, solioque alte subnixa resedit]”. Riferiti alla regina di Cartagine Didone e al suo arrivo al tempio di Giunone, per tradurli in italiano mi avvalgo della storica versione che dell’Eneide fece Annibal Caro (1507- 1566): “Giunta al cospetto de la diva, in mezzo de la maggior tribuna, [in alto assisa, cinta d’armati, in maestà si pose]. Resta a mio avviso da chiarire perché un architrave così nobilmente inciso fosse stato confinato ad una finestra che ad oggi non sembra dire nulla di particolare. Potrebbe essere stata spostata da un altro luogo, come un diverso colore e una apparente diversità di materiali tra gli elementi che compongono la finestra sembrano suggerire. Più avanti, compare un portale architravato che reca scolpita la data 1572. All’interno, si nota un grande arco in pietra. Secondo una leggenda riferita da Aldo Gorfer, la casa sorgerebbe su di una casa-forte costruita da Teodorico da Verona, ovvero il re ostrogoto morto nel 526. Infine, nel racconto di Stefano Ziller, raccolto e pubblicato da chi scrive in una guida storico-artistica di Revò, fu proprio casa Betta la prima scelta che suo padre Lino Ziller, revodano sindaco di Bolzano, aveva in mente nel momento di acquisire un palazzo storico di Revò da restaurare; ma la presenza di 47 proprietari con le facilmente immaginabili complicazioni nell’acquisizione del bene, dirottò l’attenzione di Ziller sulla splendida casa Thun-Martini.



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