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Senza Chiesa senza Dio?

dom 30 apr 2023 09:04 • By: Renato Pellegrini

C’è anche tra i credenti chi pensa all’esaurimento di una determinata forma storica di cristianesimo

Non occorre molto per convincersi che la Chiesa vive oggi una grave crisi: sospesa tra affanno e depressione. Soprattutto nei paesi europei appare a tutti gli effetti come una grave crisi epocale. C’è anche tra i credenti chi pensa all’esaurimento di una determinata forma storica di cristianesimo, che pare una religione ormai incapace persino di usare parole che abbiano un qualche significato per l’esperienza che le donne e gli uomini di oggi sperimentano. Pensiamo a parole come salvezza, redenzione, grazia

Un teologo ceco, assai attento alle trasformazioni del cristianesimo, Thomas Halik, lo ribadisce in modo chiaro: «Forse è giunto il tempo di abbandonare molte di quelle parole pie che abbiamo continuamente sulla nostra bocca e sui nostri stendardi». Queste parole, spiega, a causa di un uso continuo e troppo superficiale, sono consumate e hanno perso il loro significato. Altre parole che usiamo sono diventate troppo pesanti per riuscire ad esprimere il messaggio del Vangelo, la buona novella.

Occorre prenderne atto, come fa Giuliano Zanchi: “Mai come in questi momenti si può avere consapevolezza di quanto le nostre parole religiose siano consumate, estenuate dall’abuso, depotenziate dal controllo: esse ora scivolano sulla realtà… come acqua su una tela cerata. Non ce ne siamo presi cura che per blindare la loro immutabilità. Ora non abbiamo che fossili verbali utili solo alla stratigrafia di un mondo scomparso”. Se così stanno le cose, dopo duemila anni, mi pare evidente che il cristianesimo, giunto ormai al suo inevitabile appassimento come sistema religioso, sia oggi convocato a radicarsi di nuovo nell’esigente logica della parola evangelica. «Investire in formazione rimane l’unico modo possibile per preparare il futuro, per seminare futuro. E la formazione richiede inventiva, risorse economiche e mentali, lungimiranza, e la pazienza dei passi brevi nella coscienza dei tempi lunghi» (B.

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Salvarani).

Certo, nel futuro contesto sempre più secolarizzato e post-secolare, quel che resta del cristianesimo e dei cristiani – non solo in Occidente – si troverà a operare in uno spazio pubblico affollato di proposte etiche, morali, spirituali e teologiche variopinte, non di rado in contrasto fra loro e destinate a confrontarsi con la permanenza di atteggiamenti e stili di vita pienamente secolarizzati. E non serve a nulla, neppure stavolta, secondo l’immagine di Numeri 11,5, rimpiangere le cipolle egiziane… Siamo di fronte alla fine di un mondo, del mondo cattolico e della cristianità, che affonda le radici nel quarto secolo, l’epoca degli imperatori Costantino e Teodosio e dei grandi Concili, da Nicea (325) a Costantinopoli (381). Quello che nacque là, è parso inscalfibile e per secoli è stato capace di imporre il proprio sguardo su un amplio territorio, di tener testa agli attacchi dei nemici di turno (atei, laicisti, materialisti ecc.) e di superare senza quasi fiatare ogni contestazione interna. Ma è un mondo che oggi non c’è più. A nulla valgono le flebili nostalgie dei sopravvissuti, i rimpianti del bel tempo che fu, i richiami a una mitica età aurea quando ci si impegnava a costruire chiese ed edicole, santuari, conventi e monasteri che segnassero il territorio.

Per il futuro non basta rimboccarsi le maniche, occorre per prima cosa pensare, capire quello che è successo. E (ma è un pensiero personale, forse un sospetto temerario) purtroppo oggi si pensa poco, troppo poco anche nella chiesa. Ad esempio: quanti tra preti e pastoralisti e credenti impegnati prendono sul serio quanto si domandava Dietrich Bonhoeffer se sia possibile vivere dopo duemila anni della sua storia, il cristianesimo «etsi Deus non daretur», cioè come se Dio non ci fosse.  Ottant’anni dopo, stiamo appurando che è perfettamente possibile vivere “come se Dio non ci fosse”, come capita oggi alla maggioranza dei cittadini europei, i quali in qualche misura ancora si dicono sì cristiani – qualunque cosa ciò significhi per loro – ma che alla questione di cosa o chi sia Dio, o ai dubbi relativi alla sua esistenza o alla sua inesistenza, non dedicano alcun interesse. Senza problemi, rimpianti o rimorsi. Un gran numero di persone ha smesso di credere in Dio e le chiese non sembrano più in grado di affrontare tale situazione, di testimoniare e comunicare la buona notizia di Dio.

Ma allora ci si sta avviando verso una fine annunciata? Questo modo di vivere la Chiesa sì; a mio avviso è destinato a terminare, non subito, non all’improvviso, ma dopo un processo più o meno lungo durante il quale scompariranno forme, modi e riti che fin qui hanno saputo esprimere la fede.  Dopo il tempo della pandemia mi sono convinto che è quanto mai urgente (ma lo dice più autorevolmente di me anche il vescovo di Pinerolo Derio Olivero nel bel libro: Non è una parentesi) che la chiesa si sposti nelle case. E non importa in quante.

È fondamentale che ci sia un segno! Celebrare la Pasqua o un’altra festività in casa non deve essere impossibile: un tavolo con la parola di Dio aperta, un lume acceso, un pane spezzato, un calice di vino, un mazzo di fiori. Conta che avvenga una celebrazione domestica presieduta da una ministerialità familiare, laica, spesso femminile; che i riti abbiano ripreso posto nella vita e abbiano cominciato a sentirne il sapore. «Ecco quanto non si dovrebbe più fare: sequestrare nuovamente le celebrazioni e tornare a chiuderle nelle chiese, rendendole una volta ancora un’esclusiva clericale, a dispetto del linguaggio abituale della celebrazione comunitaria. Prendersi cura di quanto è appena sbocciato significherebbe incoraggiare piccoli riti personali e familiari, riti di fede alla misura del tempo, dello spazio e del luogo di una famiglia normale». (B. Salvarani)  



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