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Corsi e ricorsi

lun 13 apr 2020 15:04 • By: Alberto Mosca

Dalla peste al Covid-19: anche oggi utilizziamo misure del passato. E i trasgressori c’erano allora come oggi.

Pittore trentino, Il lazzaretto di Trento nel 1630. Trento, Museo Diocesano (particolare)

Di fronte alle grandi epidemie, ci comportiamo più o meno alla stessa maniera. Oggi, nel 2020, o per esempio nel 1630, quando imperversò la grande peste manzoniana. E i documenti degli archivi della Val di Sole ce lo raccontano ampiamente. Vediamo come.

Partiamo dal 1628, anno in cui abbiamo notizia, nella pieve di Ossana, di una carestia primaverile causata dall’eccessiva esportazione di granaglie verso le valli lombarde. Dovevano essere anni di penuria alimentare, aggravati dagli effetti della “piccola glaciazione”: e infatti ancora nell’aprile del 1630, ormai prossimi agli eventi di cui ci stiamo per occupare, l’autorità si sente in dovere di intimare a osti, macellai, panettieri ad attenersi a delle regole di vendita prestabilite, in termini di prezzi praticati e di quantità di merci vendibili. Forse una generale vulnerabilità della popolazione agevolò l’espandersi del male epidemico, di cui sentiamo parlare per la prima volta nella pieve di Ossana nel luglio 1630.  E come nel 2020, con ogni probabilità essa arrivò dalla Lombardia.

A Trento segni di pestilenza apparvero già nel 1629, ma la fase più acuta si ebbe tra l’agosto e l’ottobre 1630, per poi continuare fino al maggio 1631. Le testimonianze dirette ci parlano della città chiusa, della proibizione di pubblici spettacoli, dell’allestimento del lazzaretto nella Badia di San Lorenzo, di tanti morti, che alla fine vennero contati in circa 2500.

Ma ci descrivono anche la crisi dell’economia, specialmente della viticoltura (“La metà delle vendemmie restano sulle vigne – scriveva Pasino Salvotti, agente della famiglia Thun – che non si trovano opere per denari per la grande mortalità dei poveri lavoranti”).

E torniamo in Val di Sole. All’inizio dell’estate del 1630 il contagio era alle porte, forse già evidente: fatto sta che in un congresso tenuto a Cusiano l’autorità assessorile prese provvedimenti: primo, separando i sani dai malati e quindi allestendo i lazzaretti; secondo, ponendo delle guardie al Tonale e alla Forcella di Montozzo, in alta Val di Peio.

Autoroen Aprile

L’alta Val di Sole è una zona rossa, dalla quale non si entra e non si esce.

A ottobre la Val di Peio è ancora indenne dalla pestilenza: ma ai “soprastanti alla sanità”, l’arciprete Passarini e il nobile Giovanni Gaspare Migazzi si presentano i rappresentanti di Peio, Cogolo e Celledizzo, che protestano perché si vuole impedire il passaggio di vettovaglie e soccorsi di vario genere a loro destinati dagli altri comuni della Pieve, con spirito solidaristico.

Per farla breve, chi non moriva di peste, sarebbe morto per la fame.

Peraltro, il contagio alla lunga sarebbe arrivato anche nella Valletta: nel 1630 a Celledizzo si inaugurava infatti nel cimitero un’area dedicata ai morti appestati e nel 1633 Peio e Comasine si accordavano per dividersi le spese sostenute per fronteggiare il contagio.

E se oggi chi si muove da casa per futili motivi viene sanzionato pesantemente dalla forza pubblica e cazziato dalla morale dei vicini, le cose allora non erano molto diverse.

Ce lo dice un atto del maggio 1631, che tra l’altro ci attesta come il contagio imperversasse ormai da quasi un anno: in esso è lo stesso vescovo di Trento, Carlo Emanuele Madruzzo, quello che per sfuggire al contagio si era rifugiato nel suo Castel Nanno, a esprimere il proprio “dispiacere” alle autorità della pieve per le numerose violazioni ai proclami che contenevano quelle che oggi chiamiamo “misure di contenimento”. Peraltro, all’italiana, arrivarono poi i condoni per le pene comminate, calate della metà.

E siamo all’agosto 1631, quando sappiamo che qualche guardia del contagio, abusando della propria autorità, vessavano i rappresentanti comunali esigendo pagamenti in denaro ancora non dovuti, dato che l’emergenza non era ancora finita.

Cavizzana: il Sas de la Guardia con incisa la data 1632.

Fu ancora il vescovo ad accogliere la supplica di questi poveri sindaci maltrattati.

E parlando di guardie, la data 1632 è incisa su un grande masso dalle parti di Cavizzana, posto sulla strada di accesso al paese. Lì era appostata la guardia che impediva l'accesso ad esso, e ancora oggi porta il nome popolare di "Sas de la guardia".

Il tempo dei conti arrivò, ma era il marzo 1632, dopo che il morbo aveva avuto ulteriori episodi nelle ville di Mezzana e della Commezzadura.

Fu il capitano Cristoforo Oliviero d’Arsio a emanare una sentenza arbitrale con cui ripartiva le spese, secondo la solita proporzione, tra le pievi delle valli del Noce, non senza aver avuto qualche lite con quelle nonese, che di sborsare per le spese del contagio non avevano tanta voglia…

La peste era finita, anche se come detto a Malé, Pracorno, Bolentina, Montes, Croviana, Monclassico e Presson nel 1636, ad Almazzago nel 1647, tornò a mietere vittime.

Negli anni seguenti le pievi avrebbero continuato a pagare: non per l’epidemia, ma per i costi esosi della guerra dei Trent’anni. Ma questa è un’altra storia.

“…Questa povera città di Trento giornalmente va rodendo con molta mortalità di gente. Io mi ritrovo qui in villa con tutta la mia parentela per grazia di Dio e di San Vigilio sani, ma con grave cordoglio per le nuove che giornalmente sentiamo dei morti, di parenti e amici…”.

(Pasin Salvotti a Giorgio Sigismondo Thun, da Cadine il 5 ottobre 1630)


Ludovico Antonio Muratori, Del governo della peste, Modena 1722.

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