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Verso la Pasqua

dom 17 mar 2024 08:03 • By: Renato Pellegrini

Il vero significato della festività cristiana

Mi chiedo talvolta: ma Dio non aveva qualcosa di più accattivante per dirci che ci ama che una croce sulla quale è stato appeso suo Figlio? Capisco chi, non cristiano, ogni tanto sbotta dicendo che è un segno crudele, che non è segno di amore. Capisco, ma non condivido. È importante, infatti, saper guardare oltre quel corpo insanguinato, ferito dai flagelli, segno della brutalità umana, per capire cosa significhi un Dio che ama fino alla fine.

Lo pensiamo spesso come un deus ex machina, capace di risolvere con un miracolo, un cenno della mano, uno sguardo attento ogni male, ogni problema. Non interessa a Dio e a Gesù insegnarci cose del genere. Non servirebbero alla nostra umanità, ma semmai rischierebbero di farci più violenti, più indifferenti. Quante volte abbiamo sentito, e magari ci siamo anche detti che Dio lo si incontra dove si ama: «Quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». (Mt. 25,40) Ecco allora che amare vuol dire vincere il proprio egoismo per essere attenti agli altri. E per non essere troppo generici e quindi magari incomprensibili, questo vuol dire non sparlare dei migranti, se non ne conosci nemmeno uno, se il tuo giudizio si basa solo sul sentito dire. E poi, ancora più importante e necessario, non fare di ogni erba un fascio. Vuol dire, ancora, per usare le parole di Giovanni Paolo II pronunciate all’Angelus del 29 agosto 1999, che «la sequela cristiana significa spesso seguire un itinerario fatto di incomprensioni.

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Oggi, come ieri, essere cristiani significa andare controcorrente rispetto alla mentalità di questo mondo, cercando non il proprio interesse e il plauso degli uomini, ma unicamente la volontà di Dio e il vero bene del prossimo». È proprio Gesù appeso alla croce che ci dice che noi siamo la vita che doniamo. Nella preghiera del Padre nostro diciamo: «Sia santificato il tuo nome», ma facciamo fatica a comprenderne il significato: farsi carico della vita dell’altro, «perché il vero nome di Dio sono le sue creature» (P. Squizzato). È la Pasqua, quando in ogni parte del mondo risuona il canto di risurrezione, che ci invita a questa conversione, ricordandoci che il nome delle donne e degli uomini è sacro e togliere loro la dignità è bestemmiare Dio. Martin Luther King con grande chiarezza e grande forza chiariva che parlare di amore «non è parlare di un sentimento debole e romantico». Allo stesso modo potremmo sostenere che il ben non è qualcosa di astratto, ma qualcosa da compiere per rendere sempre più vivibile questa terra, «la nostra casa comune». Non è possibile celebrare la Pasqua senza provare una forte reazione per quei cinquanta naufraghi morti in mezzo al mare, bruciati dal sole e dissetati dall’acqua salata del mare. Pasqua è sapere che scappano dalla loro terra perché la vita è invivibile, che riportarceli non può essere la soluzione che ci lascia tranquilli. Pasqua ci ricorda che l’amore concreto, vivo nelle opere che compiamo, sconfiggerà quello che il Vangelo chiama «il principe di questo mondo», e cioè quello stile di vita improntato sulla logica del potere, dell’arrivismo, sulla cattiveria, sulla prevaricazione, sull’egoismo. «Là dove si vive l’amore, questa cappa mortale verrà dissolta; più luce mettiamo nelle nostre relazioni, più il potere del male arretrerà e la tenebra conoscerà la sconfitta». (P. Squizzato)

Questo è il cammino da compiere per arrivare a Pasqua. E mi par già di sentire chi mormora che questo discorso è comunista e non di un umile discepolo di un Dio avvolto nella nostra umanità. Sono convinto che quel Dio che spalanca i sepolcri non guarda le etichette che noi uomini amiamo appiccicarci per contrapporci e dividerci in amici e nemici. Il Dio che amo e che mi ama, mi ordina di slegare chi è legato mani e piedi e di portarla alla libertà, come ha fatto davanti alla tomba di Lazzaro. Questo è il Dio che mi invita alla Pasqua, a riscoprire il rifiorire di una vita nuova. 



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