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È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio

dom 21 apr 2024 08:04 • By: Renato Pellegrini

Stranieri, immigrati e la tentazione di fare di tutta un'erba un fascio

C’è un argomento, quando si parla tra persone o in una qualche assemblea, oppure vi si accenna semplicemente al bar, che mette subito in allarme. Chi tocca il tasto stranieri o immigrati, è solitamente coinvolto e avvolto da esclamazioni di vario tipo. Le più sopportabili ti dicono che “sei di sinistra”, e non invece che sei inaffidabile, o magari venduto. Di solito non si sa a chi. È facile fare di tutte le erbe un fascio, liquidando la faccenda con il “sono tutti uguali”. Questo per la verità non vale solo per gli stranieri. Anche i meridionali “sono tutti uguali”. Per dirla altrimenti non hanno voglia di lavorare, sono truffatori e… mafiosi. È evidentissimo che non è vero, e chi li conosce ne ammira molte qualità. Certo che non tutti e non sempre sono perfetti. Come accade da ogni altra parte dell’Italia e del mondo.

Torno al tema degli stranieri. A me pare che ci sia scarsa conoscenza di quello che succede oggi e di ciò che succedeva ieri. I luoghi comuni sono sempre presenti. E infatti non c’è un popolo o una porzione di popolo esente da sospetti e razzismo. Consiglio ai miei conterranei, i trentini, di leggere un libro edito dalla Giunta della Provincia autonoma di Trento (1998): «Dal Trentino al Vorarlberg. Storia di una corrente migratoria tra Ottocento e Novecento».

La lettura del volume è decisamente impegnativa. Sono oltre 650 pagine piuttosto fitte. Vi si narra delle grandi e belle imprese di molti uomini e molte donne provenienti dal Trentino, persone con grande inventiva, capaci di dare origine a imprese invidiabili. Ma come erano visti dalla gente comune e dalla stampa? «Era dilagante la convinzione che i Trentini (e gli italiani in genere) fossero rozzi e non di rado aggressivi, peculiarità alle quali ne venivano associate altre, per lo più negative».

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(pag. 598) E in relazione a un episodio accaduto in una locanda, e all’aggressione ai danni di un incolpevole passante, si veniva apostrofati come incivili , insolenti e attaccabrighe. Naturalmente, essendo violenti, gli italiani in genere (non si faceva molta attenzione alla loro provenienza, se nord o centro o sud) aumentavano la scarsa sicurezza. L’accusa di atteggiamenti aggressivi si accompagnava convintamente al fatto che gli operai trentini utilizzavano «anzitutto lo stipendio per placare la loro sete di acqua vite», per bere nelle osterie e fuori dalle osterie. Veniva poi «attribuito alla popolazione trentina il frequente uso del coltello come arma». (pag. 601) Insomma, in base a questa teoria, anche i Trentini vivevano una esasperante rilassatezza dei costumi. Non andava meglio negli Stati Uniti d’America, dove gli Italiani in genere venivano additati come coloro che «non amano l’acqua», e «molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane…. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina… Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici, ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro». (da una relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, ottobre 1912).

Insomma c’è stato un tempo in cui, per dirla con il titolo di un libro conosciuto, «gli albanesi eravamo noi». Quindi nemmeno oggi c’è da stupirsi se qualcuno «cerca di togliere d’attorno i disabili, i poveri, i clochard» non solo con le ordinanze, «ma con i pestaggi, gli insulti e le fiamme» (Gianantonio Stella: Negri, Froci, Giudei & Co. pag. 263). In fondo l’uomo non cambia mai. Gli basta un capro espiatorio per auto assolversi.

E se, invece, si cominciasse a ragionare, a lasciar perdere i troppi pregiudizi, al non fare di tutte le erbe un fascio? Mi raccontava pochi giorni fa una persona, anch’essa vittima di un certo modo di pensare, che è bastato incontrare e conoscere una famiglia straniera, dialogando senza paura, per capirne la sofferenza e il valore. Pur di odiare abbiamo inventato le razze. Marco Aime, antropologo, nel volume “Classificare, separare, escludere”, dopo aver analizzato brevemente gli studi degli scienziati scrive che ormai «non è possibile classificare l’umanità sulla base di differenze biologiche significative». E ammette che «è un grande equivoco quello della razza, sorto grazie a una interpretazione errata della teoria darwiniana, sulla base della quale si ipotizzavano differenze biologiche e culturali tra i gruppi umani» (pag. 90). Ancora oggi, purtroppo, vediamo quanto «sia più facile spezzare un atomo piuttosto che un pregiudizio» (Albert Einstein), e il fatto che «il dato scientifico non sia sufficiente a sconfiggere i pregiudizi, ci dà la misura di quanto il nostro pensiero sia modellato più dalle percezioni che non da evidenze razionali». (pag.92).

È il cammino di ciascuno, impegnativo, difficile e costante che forse può far superare agli uomini quelle idee che servono a ritagliarsi un posto privilegiato, là dove, però, non ci sono né confini né reticolati, perché quel posto è di tutti.



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