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Andiamo per malghe

Diamo il giusto valore alle malghe solandre

ven 23 dic 2022 11:12 • By: Giulia Colangeli

Due chiacchiere con il presidente dell'Apt della Val di Sole Luciano Rizzi

Con Luciano Rizzi, presidente dell’Apt della Val di Sole parliamo di malghe e del loro valore turistico.

Oggi dalla malga originale emerge principalmente l’immagine del prodotto caseario, non i servizi di ristorazione che oggi attraggono i turisti?

Assolutamente no, la malga era sussistenza, solo produzione di latte. La ristorazione è venuta dopo. Ora, generalmente, quasi tutte le malghe hanno un co-gestore che si occupa del ristorante, con lo sviluppo turistico. La malga in realtà era e, per fortuna, in Val di Sole è ancora, produzione di formaggio. Dovrebbero essere ancora ventuno le malghe che fanno formaggio in quota.

Nell’ottica di questo cambiamento nel tempo quali sono stati, secondo lei, i vantaggi del progresso, quali le involuzioni?

Del progresso, pochi vantaggi. In realtà la malga che lavora, lo fa com’era una volta, quindi non c’è stato progresso. Al massimo hanno portato l’elettricità che permette mungitura elettrica e non più manuale. L’unica grande differenza. E poi è cambiato il trasporto: un tempo si partiva dai paesi a piedi alle quattro di mattina, oggi ci sono i camion. Il lato negativo sta nel fatto che il mondo delle malghe qualche anno fa è entrato a far parte della contribuzione che dà l’Unione Europea e di un gioco perverso per il quale conveniva ai grandi produttori – del Veneto e del basso Trentino – prendere in affitto la malga con animali, non sempre autoctoni, perché il contributo era maggiore all’eventuale resa. Questo ha portato le malghe ad avere affitti alti, mettendo in difficoltà i nostri allevatori. Capitava che pascolassero anche animali asciutti (che non producono latte), occupando un terreno più grande e ricevendo un maggiore contributo. È una cosa che va combattuta, perché il turista per ‘malga’ intende un luogo dove i bambini vedano le mucche e gli adulti assaggino il formaggio o acquistino il burro, non quel tipo di sfruttamento.

Dunque, il lavoro onesto e tradizionale, alla fine, paga.

Sì, perché non puoi competere altrimenti. Fortunatamente c’è stata una grande presa di coscienza da molti sindaci e l’affare sta prendendo una piega diversa. Si tiene conto di ciò che l’opinione pubblica vuole, e in fin dei conti conviene più una manutenzione onesta e autogestita che tutto il sistema di affitto della malga. Sono anche soddisfatto perché le malghe son tenute da persone con una media di età bassa.

Oggi, dal punto di vista del turista estivo medio, magari un cittadino in vacanza che di formaggio e tradizioni non sa nulla, che ruolo può svolgere la malga solandra?

Nella Val di Sole c’è una concentrazione importante di malghe, circa un centinaio di cui una quarantina con le bestie e ventuno dove si produce ancora formaggio. Chi si sposta in montagna per le vacanze ha già una sensibilità diversa di chi va al mare, per dire, ma magari non conosce la malga. Quando è qui la scopre, e se si tratta di famiglie con bambini è fin troppo facile. È un’occasione per trovare prodotti tipici – e diversi da esperienze già vissute – e rimasti inalterati nel tempo. Dal formaggio alla torta di patate.

Quindi può avere decisamente valore didattico.

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Assolutamente sì, c’è chi fa anche la fattoria didattica con gli animali, ad esempio. Inoltre la qualità del formaggio è migliore di una volta, mediamente. Tutto è connesso alla pulizia – un tempo si era più elastici – e, per assurdo, si può dire che oggi assaggiamo il vero formaggio di malga, che presentiamo anche all’asta del formaggio a Castel Caldes. Che è diverso dal formaggio ‘fatto con latte di malga’, ovvero prodotto a partire dal latte delle mucche che veniva trasportato al caseificio attraverso lattodotti, direttamente dalla malga. Ancora oggi qualcuno lo fa, le caratteristiche del formaggio rimangono quelle, ma il latte subisce un piccolo shock, se vogliamo, nella discesa.

Noto che l’argomento ‘formaggio’ apre infinite porte. Mi parla dell’asta di Castel Caldes, giunta alla settima edizione?

Nell’asta che facciamo a Castel Caldes, ogni anno, ammettiamo solo forme fatte in malga e non con latte di malga. Ci siamo avvalsi di un affinatore che lo garantisca, sono presenti chef stellati, lo stesso banditore da sempre – di Firenze – con il suo martelletto. Fa sorridere, ma fa parte di una cultura, quella dell’asta, che noi non avevamo. Un’iniziativa che è cresciuta su sé stessa negli anni.

Si è creata una tradizione che, però, mi sembra avere un valore turistico più di élite, non pensata per il pubblico medio. O sbaglio?

Si tratta di un valore tramite il quale vorrei portare chi lavora il formaggio alla consapevolezza piena del valore che propone, vendendo un prodotto così unico.

Se prendi una forma in Val di Sole a sette euro al chilo, in Toscana diventano dodici e in Francia diciotto. Questo perché? Per com’è la gente, e l’importanza che dà alle cose. Non vendo formaggio, ma vorrei far capire a chi lo vende che può farselo pagare quant’è giusto. La tradizione è sempre stata di venderlo a settembre, e lo spiega il detto: “il formaggio è un ladro di notte”. Vuol dire che la forma di formaggio perde di peso man mano che invecchia. Un tempo si valutava questa perdita di peso come perdita di valore, perché il formaggio era venduto alla gente del posto e ci si sentiva condizionati nella scelta dei prezzi. Ma si può aumentare per i turisti, proponendo un prodotto di valore che è giusto venga ben pagato, facendo magari uno sconto a chi è del posto.

I contadini non sono giardinieri, come invece si sente dire, ma fanno un duro lavoro di tradizione, turisticamente importantissimo per i prodotti del territorio e per il suo mantenimento. Vogliamo quindi, attraverso l’asta, far passare il concetto di affitti delle malghe e prezzi dei formaggi congrui.

Considerato il vostro sguardo rivolto al domani, come vede la malga del futuro? Cosa vorrebbe fosse mantenuto e cosa invece desidererebbe ci fosse, di nuovo?

Io penso che la malga, come produzione, va bene così. È più difficile considerare ciò che la ristorazione comporta, un’attitudine che non tutti hanno.

Se parliamo di prodotti di malga, mancano giovani che facciano gli affinatori (coloro che prendono il formaggio, lo selezionano a monte, intuiscono la proprietà d’invecchiamento e lo fanno invecchiare). Un tempo si faceva invecchiare il formaggio nelle cantine sotterranee, per creare un clima d’invecchiamento ideale. Era il ‘volt’ e poteva essere ‘bon’ oppure ‘men bon’. Poi dagli anni settanta la tradizione della stagionatura è venuta meno, ma il futuro è nel suo ritorno. La produzione è piccolissima, il prodotto è molto importante: ed è proprio il momento in cui si verificano queste due condizioni che la cosa sfora dalla logica del commercio. Diventa un’arte.

E la si paga anche di più. Il concetto è lo stesso del vino. Ma il valore del formaggio, a livello commerciale, è ancora sottostimato.

Quindi c’è talento, c’è rispetto della tradizione, ma mancano giovani e abilità di marketing?

Esatto. Ci sono giovani nella produzione, ma nessuno che abbia capito che può essere un business anche fare l’affinatore. È un giochino che non costerebbe tanto all’inizio, basterebbe un piccolo capitale e impegno, la schiena che lavora perché la forma va girata e raschiata ogni giorno. Ma chi decide di fare l’affinatore può creare una professione, non solo essere testimonial del territorio.

Mi sembra un’idea di carattere positivo, che va ampiamente in contrasto con il pregiudizio per il quale in una valle di montagna non si trovi lavoro. Tutto il contrario, mille sono le opportunità per chi si dà da fare.

Penso che ci sia anche lì una grande svolta. Se continuiamo a sostituire il lavoro manuale con le macchine, tra cinquant’anni non serviremo a niente. E quindi, a cosa servirà essere tutti laureati, però, senza saper fare più niente di manuale? Un discorso è l’istruzione, un altro è la professione. Alcune professioni richiedono la laurea, altre no, richiedono altri tipi di studio e nelle valli hanno ancora il loro perché.

Siamo tutti sostenibili, a quanto pare, e poi ignoriamo lo sfruttamento che c’è dietro per farci avere tutto in due giorni. Non consideriamo il problema per i nostri storici negozi: quale turista verrebbe in un paesino con le vetrine coperte dalla carta di giornale? Chi verrebbe in un posto che non può più venderti neanche il pane? Sono processi che stanno scappando di mano.

È inutile pagare industrie che lucrano sul dettaglio. La domanda da farsi è: chi è l’utente? Di cosa vive l’utente? Un cliente deve poter comprare perché ha lavoro, senza lavoro finisce la storia. Tornare a vivere nelle valli diventerà un buon modo di vivere, allora. E la qualità della vita conta, non è un capriccio o ‘una roba per pochi’.

 

La montagna sta tornando di moda, con lo stile di vita che porta con sé e propone. Tornano così i mestieri e le attrattive di un tempo che la città non riesce a offrire quasi più: il prodotto a chilometro (letteralmente) zero, un’aria diversa, una qualità della vita – appunto – reale. Luogo fisico e dell’anima, la montagna, che mi sembra saper sempre dare valore all’unicità del pezzo, dell’essere umano e del prodotto. Dove si possa ancora vivere e non trascorrere l’esistenza. Dove si possano mettere foglie nuove, a partire da sane e solide radici.



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