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Speciale 25

Paesaggio e Terra madre

mer 08 lug 2020 22:07 • By: Ugo Morelli

Quale sarà il ritorno alla normalità?

Allargare i confini dell’alterità

Cos’è un paesaggio senza di noi? È come un libro senza un lettore. I paesaggi della nostra vita, come ho provato a narrare nel mio libro I paesaggi della nostra vita, Silvana editoriale, Milano 2020, appena pubblicato, sono il risultato delle nostre scelte, delle nostre azioni e della nostra presenza nei luoghi. In Val di Sole, come in altri luoghi montani, è stata ed è la presenza e l’azione umana a fare il paesaggio. Si tratta di una presenza che è stata prima timorosa e che ha dovuto guadagnarsi con la fatica la vivibilità, per poi diventare una presenza pervasiva e non sempre rispettosa. Oggi possiamo cercare una presenza che rispetti l’ambiente e il sistema vivente.

L’indifferenza che ha caratterizzato il nostro tempo recente ci ha resi, in buona misura, esseri singoli e soli. Alcuni di noi erano da tempo mendicanti di legame sociale e relazioni, perlopiù inascoltati, impegnati a mostrare che i corpi in presenza e in movimento con le loro affettività scambiate sono la fonte stessa della cognizione. Ce ne accorgeremo adesso, che i corpi sono diventati distanti per forza, del valore dei gesti e del fatto che siamo corpi in movimento che esprimono menti relazionali? Vivevamo da tempo nella distanza, nell’abisso psichico dell’indifferenza e non ce n’eravamo accorti. Ce ne accorgeremo adesso? A saper ascoltare, nei giorni della pandemia ci siamo confrontati e ancor oggi ci confrontiamo col vuoto che evidenzia la nostra incompletezza. L’altro nelle sue molteplici espressioni è la fonte per l’elaborazione della nostra incompletezza. Anche se si tratta di un’incompletezza costitutiva e, come tale, insuperabile ma affrontabile con l’elaborazione, c’è da domandarsi se e a quali condizioni riusciremo a riconoscere l’altro, metà del nostro cielo oggi diviso? Tutto dipende da come saremo capaci di elaborare questo trauma che ci ha coinvolti e per il quale facciamo fatica a riconoscere le nostre responsabilità. Se «l’uomo è la natura che ha preso coscienza di se stessa», come ha sostenuto già nell’800 il geografo Elisée Reclus, dovremmo estendere il concetto e l’esperienza di «altro». Chi e che cosa è «altro» per noi?

Mentre abbiamo non poche difficoltà a riconoscere e ad ammettere tra noi il volto di esseri umani che per qualche ragione sono diversi da noi, dalla cultura al colore della pelle, alla religione, ci rendiamo sempre più conto che l’altro che conta per la nostra vita è tutto il sistema vivente, Covid_19 compreso.

Autoroen Aprile

Il virus, infatti, fa solo il virus e lo fa in base a quello che è in quanto virus. Sono i nostri modelli di vita e i nostri comportamenti a costituire il problema e a causare la pandemia. Se il virus può espandersi e farci tremare di paura, ciò è possibile in quanto gli forniamo le condizioni per farlo. È su quelle condizioni che possiamo agire per una relazione con l’altro, virus compreso, che non sia distruttiva per noi. Abbiamo perciò bisogno di allargare i confini dell’alterità e includere finalmente nella nostra vita relazionale e situata sul pianeta Terra tutti i viventi terrestri con cui siamo legati naturalmente in un comune destino. Ciò vuol dire, per richiamare un’importante definizione di Stephen Toulmin, riconoscere «la morte dello spettatore». Non ci è più consentito considerare il mondo e guardarlo come un oggetto separato da noi, come spettatori appunto, in quanto siamo ineluttabilmente parte del sistema vivente e, quindi, coinvolti in cicli ricorsivi di interazioni che generano relazioni complesse e imprevedibili almeno in parte, tra fenomeni naturali, biologici e sociali.

Abbiamo celebrato quest’anno la 50a giornata della Terra dedicata alle api. Riusciremo ad accorgerci di avere una «madre» e dei simili, ad esempio le api, da cui dipendiamo? Non si tratta solo di diventare o restare umani, lo siamo già, nel bene e nel male.

Anche il concetto di legame sociale si estende al naturale e viceversa e finalmente possiamo riconoscere di essere animali naturalculturali, come aveva sostenuto già qualche anno fa Giorgio Prodi. Umanesimo dovrebbe necessariamente significare non più perseguire il primato dell’umano, ma assumerci la responsabilità di una specie che non solo sa, ma sa di sapere, per creare una vivibilità sostenibile con il sistema vivente di cui siamo parte.

Ascoltando Samuel Beckett possiamo riflettere: «Splendeva il sole, non avendo alternative, sul niente di nuovo» (Samuel Beckett, Murphy). E domandarci: troveremo la via, non quella di sempre, per abitare da terrestri il mondo?

 

Il passato nel futuro

C’è molto del mondo che cambia, che non muore. La Val di Sole è un luogo denso di segni della storia e della memoria. Spesso cerchiamo di assumere un comportamento nuovista, dimenticando che nel passato possono esservi le condizioni per pensare il presente e il futuro. Ci muoviamo tra persistenze e emergenze e non tutte le soluzioni del passato sono passate in termini di valore ed utilità, così come abbiamo bisogno di combinarle con la creatività e l’innovazione. Quel che conta chiedersi è se riusciremo a rendere generativo l’imperituro facendone il lievito di quel che deve nascere. Ci rendiamo conto che dobbiamo discutere e ridiscutere le premesse. Spesso è nelle premesse che si annidano le difficoltà di cambiamento. Le premesse non sono facilmente riconoscibili: richiedono un investimento in eccedenza rispetto all’ordinaria modalità di affrontare i problemi e anche apprendimenti innovativi e inconsueti. Utile è porsi la domanda se ce la faremo a risalire alle premesse e alle catene causali delle nostre scelte e dei nostri comportamenti che hanno prodotto questo presente, da come mangiamo, a come respiriamo, a come lavoriamo, a come viviamo gli affetti e le relazioni. Una delle vie più rilevanti per comprendere la nostra condizione e tirar fuori da noi le condizioni per farvi fronte è impegnarsi ad affrontare la crisi educativa e cercare di porre finalmente l’educazione al centro della nostra attenzione, essendo una delle poche effettive possibilità che possiamo avere a disposizione. La crisi educativa emerge oggi in tutta la sua portata, rivelata ancor più da Covid_19. Riusciremo ad andare oltre le tecnologie e una «pedagogia bancaria» fatta solo di numeri, priva di relazione educativa, per creare teste ben fatte e tirar fuori il meglio da noi stessi? Uno dei principali pericoli per noi è non apprendere dall’esperienza e dai nostri errori. Un ritorno alla cosiddetta «normalità», come niente fosse stato, potrebbe essere l’esito peggiore di questa nostra esperienza di pandemia e privazione della libertà. La nostra dipendenza dal passato e dalle abitudini potrebbe accecarci e riportarci nella consuetudine fino al prossimo problema e alla prossima emergenza. Quale ritorno alla cosiddetta «normalità», infatti, abbiamo in mente, se è stata quella «normalità» il nostro problema? Abbiamo perciò un compito per creare paesaggi vivibili per la nostra vita: gettare un ponte tra noi e l’ambiente, tra noi e gli altri e tra noi e la nostra storia.

 



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